Con riferimento al contratto, va ricordato come esso sia stato trasposto ed utilizzato, ai fini della edificazione del sistema sindacale di fatto, attraverso la mediazione della nozione di interesse collettivo. L’interesse collettivo è stato configurato, secondo una celebre definizione, come “l’interesse di una pluralità di persone ad un bene idoneo a soddisfare non già il bisogno individuale di una o alcune di esse, ma il bisogno comune di tutti”.
La stipulazione del contratto collettivo costituisce esercizio di autonomia privata, che è stata definita collettiva, proprio perché funzionalizzata al perseguimento di interessi collettivi, così come l’autonomia privata individuale è funzionalizzata al perseguimento di interessi individuali. La realtà italiana, storicamente fondata su grandi organizzazioni sindacali nazionali, ha dato vita ad una forte centralizzazione della contrattazione collettiva, che ruota attorno agli accordi interconfederali ed ai contratti collettivi nazionali di lavoro, i quali dettano la disciplina applicabile, rispettivamente, alla pluralità di settori produttivi rappresentati dalle confederazioni sindacali o ai singoli settori rappresentati dai sindacati di categoria.
In particolare, asse portante del sistema contrattuale è il contratto collettivo nazionale di lavoro, con il quale le associazioni nazionali regolano ogni aspetto riguardante i reciproci rapporti, ivi compresi i tempi e le procedure per il suo periodico rinnovo, nonché le condizioni economiche e normative applicabili ai rapporti di lavoro rientranti nel suo campo di applicazione. I contratti nazionali, quindi, regolano in modo analitico e minuzioso ogni profilo ed istituto del rapporto di lavoro in ciascuna categoria.
A causa dell’ostilità manifestata dai sindacati, non è mai stata dettata una disciplina di legge di carattere generale che regoli l’esercizio del diritto di sciopero. E soltanto nel 1990 è stata emanata una disciplina in materia limitatamente all’ambito dei servizi pubblici essenziali. Ciò nonostante, nel sistema sindacale “di fatto”, anche la gestione del conflitto ha potuto svolgersi a lungo senza rilevanti criticità , e ciò per due ragioni.
Da un lato, i sindacati che avevano un maggior seguito in termini di rappresentanza hanno mostrato, in concreto, la capacità di esercitare in modo responsabile lo sciopero, osservando forme e modalità che hanno prestato attenzione a non compromettere i diritti fondamentali della persona, e la possibilità di sopravvivenza dell’impresa. D’altro lato, in mancanza di leggi, sono state la giurisprudenza costituzionale ed ordinaria ad individuare i limiti posti al legittimo esercizio del diritto di sciopero. Un primo ordine di limiti deriva, indirettamente, dall’individuazione dell’oggetto del diritto tutelato dall’articolo 40 Cost., ossia dall’individuazione della fattispecie “sciopero”.
Al riguardo, va ricordato come la giurisprudenza abbia accolto una concezione notevolmente ampia, che fa leva sulla configurazione dello sciopero come diritto assoluto della persona e sul significato che esso assume nel “comune linguaggio adottato nell’ambiente sociale”. In questa prospettiva, la Corte costituzionale ha riconosciuto la legittimità anche dello sciopero che non sia rivolto a sostenere una rivendicazione nei confronti del proprio datore di lavoro, come lo sciopero di solidarietà nei confronti di altre categorie di lavoratori, e lo sciopero economico-politico, attuato al fine di tutelare interessi di natura economica nei confronti del potere politico.
Esso deve comunque consistere in una “astensione collettiva dal lavoro, disposta da una pluralità dei lavoratori, per il raggiungimento di un fine comune”. Cosicché lo sciopero avente esclusivamente fini politici è certamente oggetto di libertà , e non costituisce quindi reato, ma è dubbio che possa essere considerato un diritto, idoneo, come tale, a giustificare e legittimare la sospensione della prestazione lavorativa.
Non possono essere ricompresi nel campo di applicazione dell’articolo 40 della Costituzione quelle forme di lotta sindacale che realizzano fattispecie oggettivamente diverse da quelle di una astensione concertata dal lavoro (come l’occupazione della fabbrica, o il cd “sciopero bianco”, che si realizza non già astenendosi dalla prestazione, bensì adempiendola in modo non diligente).
Un secondo ordine di limiti deriva dalla necessità di coordinare l’esercizio del diritto di sciopero con altri diritti che godono anche essi di garanzia costituzionale ad un livello almeno pari-ordinato, quali il diritto alla vita e alla salute. Assai problematica, al riguardo, è la configurazione del rapporto esistente tra il diritto di sciopero e il diritto di iniziativa economica privata riconosciuto dall’articolo 41, comma 1, della Costituzione. La giurisprudenza ha elaborato una distinzione tra “danno alla produzione” e “danno alla produttività ”, ritenendo che lo sciopero possa determinare l’arresto della produzione, ma non possa pregiudicare “la produttività ”, ossia “la capacità produttiva” dell’azienda e la possibilità dell’imprenditore di continuare a “svolgere la sua iniziativa economica”.