Ferma la sua natura retributiva, il trattamento di fine rapporto, essendo erogato in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro ed essendo, quindi, destinato a soddisfare bisogni futuri del lavoratore, svolge sostanzialmente una funzione previdenziale. In particolare, nei casi di cessazione involontaria del rapporto di lavoro (come nel caso di licenziamento), il trattamento di fine rapporto ha svolto, di fatto, la funzione di ammortizzatore sociale, anche tenuto conto delle limitate prestazioni offerte dalla tutela previdenziale pubblica.
Stante la sua funzione, quando il legislatore ha regolato e promosso le forme di previdenza complementare, ha previsto che il trattamento di fine rapporto possa essere una fonte privilegiata per il loro finanziamento. I lavoratori, quindi, possono conferire alle forme di previdenza complementare, con modalità esplicite o tacite, gli accantonamenti annuali del trattamento di fine rapporto. Non si tratta, però, di un obbligo, in quanto i lavoratori, entro sei mesi dall’assunzione, possono anche decidere di mantenere il trattamento di fine rapporto presso il datore di lavoro.
In quest’ultimo caso, la legge prevede due distinte discipline a seconda del numero dei lavoratori occupati dal datore di lavoro. Ove i lavoratori siano 50 o più, il datore di lavoro deve automaticamente conferire l’intero accantonamento annuale per il trattamento di fine rapporto ad un apposito fondo istituito presso l’INPS per conto dello Stato. Per agevolarne la corresponsione, è tuttavia previsto che, analogamente a quanto avviene per le integrazioni salariali, anche il trattamento di fine rapporto trasferito al fondo dell’INPS sia materialmente erogato dal datore di lavoro, salvo successivo conguaglio con i contributi dovuti dallo stesso datore di lavoro all’INPS.
Per far fronte alla perdita di liquidità derivante dall’obbligo di conferire le quote dell’accantonamento annuale del trattamento di fine rapporto al fondo dell’INPS, la legge prevede specifiche misure compensative per il datore di lavoro, consistenti in agevolazioni fiscali e contributive. Ove, invece, il datore di lavoro occupi fino a 49 dipendenti, l’accantonamento annuale per il trattamento di fine rapporto continua a restare nella sua disponibilità fino al momento della cessazione del rapporto di lavoro.
La funzione previdenziale del trattamento di fine rapporto trova ulteriore conferma nella disciplina delle anticipazioni. Il lavoratore, infatti, nel corso del rapporto, può richiedere una anticipazione del trattamento di fine rapporto maturato fino a quel momento, ma soltanto per soddisfare alcuni specifici bisogni ritenuti meritevoli di tutela. In particolare, la richiesta deve essere giustificata dalle seguenti necessità:
a) spese sanitarie per terapie ed interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche;
b) acquisto, anche in itinere, della prima casa di abitazione per sé o per i figli, documentato con atto notarile o con qualsiasi altro mezzo idoneo;
c) spese da sostenere durante i periodi di congedo parentale e per la formazione.
Per poter richiedere l’anticipazione, il lavoratore deve avere almeno 8 anni di anzianità di servizio presso lo stesso datore di lavoro.
L’anticipazione può essere richiesta una sola volta nel corso del rapporto e non può eccedere il 70% del trattamento di fine rapporto maturato alla data della richiesta. Inoltre, il datore di lavoro, così come il fondo dell’INPS, sono tenuti a soddisfare le richieste di anticipazione, ogni anno, soltanto entro il limite del 10% degli aventi tiolo e, comunque, entro il 4% del numero totale dei dipendenti. Da ciò si desume che il legislatore ha anche inteso porre un limite agli oneri gravanti sul datore di lavoro a causa dell’esborso anticipato di parte del trattamento di fine rapporto.
La disciplina delle anticipazioni, peraltro, può essere integrata dall’autonomia negoziale, sia collettiva che individuale, prevedendo condizioni di miglior favore per quanto riguarda: a) l’importo dell’anticipazione; b) l’individuazione degli aventi diritto; c) la previsione di ulteriori causali, le quali devono comunque essere collegate all’esistenza di bisogni essenziali del lavoratore e della sua famiglia. La sola autonomia collettiva, infine, può anche stabilire criteri di priorità per l’accoglimento delle richieste di anticipazione.
L’anticipazione concessa al lavoratore è detratta, a tutti gli effetti, dal trattamento di fine rapporto dovuto al momento della cessazione del rapporto di lavoro. In via sperimentale e temporanea, con riferimento al periodo dal 1 marzo 2015 al 30 giugno 2018, il legislatore ha previsto la possibilità per i lavoratori con almeno 6 mesi di anzianità di servizio presso lo stesso datore di lavoro (esclusi i lavoratori domestici e quelli del settore agricolo) di richiedere il pagamento delle quote maturande del trattamento di fine rapporto, compresa la parte eventualmente già destinata alla previdenza complementare, mensilmente in busta paga come parte integrativa della retribuzione.
Si tratta di un intervento innovativo che, se reso strutturale e confermato, determinerebbe un inevitabile ripensamento della natura e della funzione del trattamento di fine rapporto. L’obiettivo perseguito è quello di far ripartire i consumi e con essi la domanda interna assicurando al lavoratore l’immediata disponibilità di un reddito più elevato.
Nel caso in cui il rapporto di lavoro si estingua per la morte del prestatore di lavoro, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere ai figli e, se vivevano a suo carico, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo grado, l’indennità in caso di morte. Tale indennità è costituita dall’indennità sostitutiva del preavviso e dal trattamento di fine rapporto e svolge essenzialmente una funzione previdenziale, in quanto spetta alle persone che più dipendevano economicamente dal lavoratore defunto.
Tra di esse è compreso anche il coniuge divorziato purché non sia passato a nuove nozze e risulti titolare di un assegno di mantenimento a carico del de cuius. Ad ulteriore conferma della funzione previdenziale assolta dalla indennità in caso di morte, la legge prevede che essa sia ripartita secondo il bisogno effettivo di ciascuno, salvo diverso accordo tra gli aventi diritto. Soltanto in caso di mancanza dei superstiti, è previsto che l’indennità in caso di morte debba essere attribuita in base alle norme sulla successione legittima e che il lavoratore ne possa disporre per testamento.
Per tale ragione, dottrina e giurisprudenza prevalenti ritengono che ai familiari titolari del diritto l’indennità in caso di morte sia attribuita iure proprio, e non, invece, iure successionis. La disciplina di legge dell’indennità in caso di morte è inderogabile, essendo prevista la nullità di ogni patto anteriore alla morte del prestatore di lavoro che abbia ad oggetto l’attribuzione dell’indennità e i relativi criteri di ripartizione, confermando così anche la generale avversione dell’ordinamento verso i patti successori.