Gli inadempimenti del lavoratore possono dar luogo all’applicazione di sanzioni “secondo la gravità dell’infrazione”. Il primo, fondamentale, limite posto all’esercizio del potere disciplinare è costituito dal nesso di proporzionalità che deve sussistere tra inadempimento e sanzione. La legge 300 del 1970 ha introdotto, poi, ulteriori, incisivi limiti diretti a “procedimentalizzare” l’esercizio del poter disciplinare, con l’obiettivo di rendere prevedibile, ex ante, e controllabile, ex post, il concreto esercizio di tale potere, riconoscendo, altresì, il diritto di difesa del lavoratore. Anzitutto, il datore di lavoro è obbligato a predeterminare quali sono le sanzioni applicabili, e quali sono le infrazioni “in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata”.

Come insegna la giurisprudenza, l’esigenza della predeterminazione non ricorre, e quindi non ne sussiste l’obbligo, nelle ipotesi in cui le condotte del lavoratore costituiscono violazione di obblighi direttamente previsti dalla legge o di principi fondamentali del vivere civile. In ogni caso, nella predisposizione delle norme disciplinari (solitamente raccolte in un “codice disciplinare”), il datore di lavoro è tenuto ad applicare le disposizioni eventualmente dettate dai contratti collettivi.

I contratti collettivi, in effetti, regolano la materia e ciò costituisce un ulteriore fondamentale limite al potere disciplinare del datore di lavoro. Il “codice disciplinare” deve essere “portato a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti”, ritenendosi che questa forma di pubblicità non possa essere sostituita da mezzi di informazione equipollenti. Il datore di lavoro che intenda sanzionare il lavoratore deve preventivamente contestargli per iscritto l’inadempimento di cui lo ritiene responsabile (salvo che non si tratti della sanzione più lieve costituita dal rimprovero verbale).

Deve, altresì, consentire al lavoratore di difendersi, presentando entro 5 giorni dalla contestazione, o entro il maggior termine previsto dal “codice disciplinare”, le eventuali giustificazioni, scritte o verbali. A tal fine, il lavoratore può avvalersi, ove lo richieda, anche dell’assistenza di un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato. Essendo funzionale all’esercizio del diritto di difesa, la contestazione deve essere tempestiva, specifica e, una volta che essa abbia dato luogo all’applicazione della sanzione, non può essere modificata dal datore di lavoro nel caso di impugnazione giudiziale.

Il requisito della tempestività è previsto perché il decorso di un considerevole lasso di tempo, da un lato, può indurre il lavoratore a ritenere che il fatto oggetto di contestazione fosse stato ormai tollerato, e, d’altro lato, può rendere impossibile, o menomare, l’esercizio del diritto di difesa da parte del lavoratore stesso. Il requisito della specificità implica che, ai fini della validità della contestazione, è necessaria l’indicazione di condotte determinate e non del semplice richiamo alla disposizione della legge o del contratto che si assume violata. Ciò perché solo rispetto a fatti adeguatamente individuati nella loro collocazione spazio-temporale, e non di fronte a meri giudizi o valutazioni, il lavoratore può prendere specifica posizione, dando eventualmente di quei fatti una diversa ricostruzione.

La immutabilità della contestazione, infine, mira ad evitare che, nel caso di ricorso del lavoratore, il datore di lavoro possa dedurre a giustificazione della sanzione adottata fatti diversi da quelli sui quali aveva consentito al lavoratore di esercitare il proprio diritto di difesa. Per quanto riguarda la tipologia delle sanzioni applicabili, la legge richiama la multa e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione, stabilendo che la prima non può essere di importo superiore a 4 ore di retribuzione e la seconda a 10 giorni.

Inoltre, vieta le “sanzioni che comportano mutamenti definitivi del rapporto di lavoro”, quale, ad esempio, la riduzione della retribuzione. In ogni caso, proprio perché le sanzioni “conservative” mirano ad assicurare la proficua prosecuzione del rapporto, non si può tenere conto di esse “ad alcun effetto” dopo che siano decorsi due anni dalla loro applicazione. Il ripetersi, invece, di infrazioni entro tale termine è solitamente considerato dalla contrattazione collettiva circostanza idonea a determinare l’applicazione di una sanzione più grave rispetto a quelle già adottate.

Le sanzioni disciplinari possono essere impugnate sia con ricorso al giudice del lavoro, sia tramite le procedure arbitrali previste dai contratti collettivi, sia, infine, promuovendo, entro 20 giorni dalla comunicazione della sanzione, la costituzione di un collegio di conciliazione ed arbitrato presso la Direzione territoriale del lavoro. In questa ultima ipotesi, la sanzione resta sospesa sino alla pronunzia da parte del collegio e perde definitivamente qualsiasi effetto nel caso in cui il datore di lavoro non provveda, entro 10 giorni dall’invito rivoltogli dalla Direzione territoriale del lavoro, a nominare il proprio arbitro o ad adire l’autorità giudiziaria. Infine, nel caso in cui il datore di lavoro proponga tempestivamente ricorso al giudice, la sanzione resta, comunque, sospesa sino alla definizione del giudizio.

 

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