La nozione di licenziamenti collettivi per riduzione di personale (introdotta con l’accordo interconfederale 7 agosto 1947, inteso a regolare i licenziamenti individuali e collettivi dell’industria) è collegata, anche dal punto di vista storico, all’abolizione del recesso “ad nutum” nei licenziamenti individuali.
Nell’accordo del 1947 la disciplina sostanziale dei licenziamenti individuali si fondava sul vincolo, posto a carico dell’imprenditore, di giustificare il licenziamento. Di contro, la nozione di licenziamento collettivo veniva identificata da esigenze di riduzione o trasformazione di attività o di lavoro.
Tale caratteristica è stata mantenuta anche nei successivi accordi del 21 aprile 1950 e del 5 maggio 1965, che imponevano l’obbligo di consultare i sindacati e di esperire un tentativo di conciliazione.
La ragione della differenziazione così introdotta va ravvisata nella considerazione che anche l’autonomia collettiva riconosceva il diritto alla libertà di iniziativa economica, tanto da farlo prevalere sull’interesse dei singoli alla conservazione del posto di lavoro.
Il quadro era destinato a mutare per effetto della L. n. 604 del 1966, con la quale venivano introdotti limiti al potere di recesso del datore di lavoro. Infatti, il legislatore del 1966 aveva “escluso” la materia dei licenziamenti collettivi dalla disciplina di quelli individuali, con la conseguenza che all’accresciuta tutela del singolo nella conservazione del posto di lavoro, non era corrisposto un parallelo accrescimento della tutela dell’interesse collettivo alla conservazione dei livelli occupazionali.
Per lungo tempo, l’assenza di una specifica disciplina legislativa in materia di licenziamenti collettivi ha così attribuito alla giurisprudenza il compito di precisare la nozione del licenziamento collettivo e le forme di tutela al singolo lavoratore. La giurisprudenza era giunta ad alcune conclusioni sufficientemente consolidate, soprattutto affermando il principio secondo cui il giudice non può valutare il merito delle scelte tecniche addotte dall’imprenditore a giustificazione della riduzione del personale, giacché esse rientrano nella libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41, co. 1°, Cost.
La funzione suppletiva della giurisprudenza e le sue contraddizioni. La disciplina comunitaria
La Corte di cassazione, dopo una lunga elaborazione giurisprudenziale, era giunta ad affermare che l’osservanza delle procedure di consultazione sindacale costituivano essenziale requisito formale del licenziamento collettivo, in mancanza si trasformava in una somma di licenziamenti individuali (cosiddetti licenziamenti individuali plurimi). Analoghe conseguenze dalla mancata sussistenza del requisito della riduzione o trasformazione di attività o lavoro ovvero nel caso in cui mancasse il nesso di causalità tra la scelta di riduzione e il licenziamento stesso. Viceversa, nel caso in cui non fossero stati rispettati i criteri di scelta fissati dagli accordi interconfederali, il lavoratore avrebbe avuto diritto solo ad una tutela risarcitoria per il danno subito.
Più specificamente, la Corte di cassazione aveva affermato che l’elemento fondamentale andava ravvisato “nel motivo, consistente nel ridimensionamento dell’azienda” (nozione ontologica del licenziamento collettivo) inteso come ridimensionamento strutturale dell’impresa.
A fronte dei cosiddetti licenziamenti tecnologici (indotti dall’introduzione di tecnologie labour saving) la Corte ha riconosciuto la configurabilità del licenziamento collettivo. Essa aveva invece escluso la ricorrenza di un licenziamento collettivo nel caso di licenziamento di tutti i dipendenti per cessazione totale dell’attività produttiva.
Nel 1991 è stata emanata (nell’ambito della L. 23 luglio 1991, n. 223) una disciplina legale dei licenziamenti collettivi che ha inteso dare attuazione alla Direttiva del 1975 che non era stata attuata dallo Stato italiano.
Di recente sia la Direttiva del 1975 sia quella del 1991 sono state abrogate dalla Direttiva 98/59 del 20 luglio 1998 che ha riprodotto alla lettera le disposizioni sostanziali della Direttiva del 1975, come modificate ed integrate da quella del 1992, solo con una diversa numerazione.
La Corte di giustizia si è pronunciata, condannando l’Italia, per non aver attuato in modo corretto la normativa comunitaria, in quanto i datori di lavoro non imprenditori erano stati esclusi dalla disciplina dettata dalla L. 223 del 1991.
La disciplina delle riduzioni di personale introdotta dalla L. n. 223 del 1991
La L. n. 223 del 1991 è comprensiva di tutte le situazioni di eccedenza di personale sia di carattere temporaneo che definitivo.
Il legislatore ha delineato due differenti ipotesi di trattamento delle eccedenze definitive di personale delle imprese distinguendo a seconda che l’eccedenza si manifesti nel corso di un processo di ristrutturazione o di crisi aziendale, per il quale sia stato concesso l’intervento della CIGS, ovvero che la decisione dell’imprenditore di procedere alla riduzione del personale prescinda da tale intervento: l’espressione utilizzata dal legislatore è, nel primo caso, “collocamento in mobilità”, nel secondo “licenziamento collettivo per riduzione del personale”.
Vanno subito precisati alcuni aspetti di rilievo:la disciplina sul licenziamento collettivo per riduzione di personale ha una portata generale e riguarda le imprese che rientrano e che non rientrano nel campo di applicazione della CIGS; inoltre, dopo la modifica legislativa del 2004 essa si applica anche ai datori di lavoro non imprenditori;
la normativa si applica alle imprese con più di 15 dipendenti;
la disciplina dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale rinvia in buona parte a quella dettata per il collocamento in mobilità, di modo che si può affermare che, salve alcune differenze, esiste una regolamentazione unitaria delle riduzioni del personale. In effetti, sia il collocamento in mobilità, sia il licenziamento collettivo sono finalizzati alla immediata e definitiva espulsione dall’impresa dei lavoratori eccedenti.