Sia prima che dopo la parentesi del periodo corporativo, le relazioni sindacali in Italia sono state contrassegnate da una forte impronta conflittuale. La natura precettiva dell’articolo 40 della Costituzione, e la configurazione del diritto di sciopero come diritto assoluto (sul piano dei diritti della persona) e come diritto potestativo (sul piano dei rapporti obbligatori), hanno consentito che il suo esercizio fosse liberamente ed immediatamente fruibile, anche in assenza delle leggi che avrebbero dovuto regolarlo.

La “via” del conflitto ha potuto essere percorsa senza limiti, e talvolta anche poco responsabilmente a causa della enfatizzazione della teoria della titolarità individuale e, più recentemente, della frammentazione della rappresentanza sindacale. Ed invece, la natura programmatica dell’articolo 46 della Costituzione, in mancanza di una legge che fissi “modi” e “termini” con i quali i lavoratori possono collaborare alla gestione dell’impresa “in armonia con le esigenze della produzione”, non ha favorito la costruzione della modalità della partecipazione e l’accesso ad essa.

Le prime forme di partecipazione, giustamente definita “debole”, sono comunemente individuate nei diritti di informazione e consultazione sindacale, che sono stati introdotti nella parte c.d. “obbligatoria” dei contratti collettivi e con i quali le organizzazioni dei lavoratori hanno imposto il loro ruolo di “interlocutori” nei procedimenti decisionali che riguardano la gestione dell’impresa nel suo complesso, e non soltanto il trattamento dei lavoratori in senso stretto.

L’introduzione dei diritti di informazione e consultazione fu favorita dal rafforzamento del sistema di rappresentanza sindacale in azienda voluto dalla legge 300 del 1970. Rafforzamento che ha reso concretamente esigibili le nuove tipologie di diritti sindacali e che, effettivamente, puntava proprio alla realizzazione di un vero e proprio “contropotere” volto a limitare la discrezionalità dell’imprenditore ed a promuovere la democrazia in azienda.

Si tratta, però, di forme di partecipazione “debole”, perché informazione e consultazione non implicano “congestione” o “codeterminazione”, né incidono sulla titolarità del potere di direzione dell’impresa (e sulla responsabilità delle conseguenti decisioni), che è e resta dell’imprenditore. Sulla stessa scia si muove anche la disciplina comunitaria, che, pur rivolgendo una particolare attenzione al tema della partecipazione, ha dovuto tenere conto della eterogeneità delle situazioni nazionali e delle resistenze frapposte dalle rappresentanze delle imprese anche a livello europeo.

Le crisi ripetute e prolungate del nuovo secolo spingono ora il sistema delle relazioni industriali verso una nuova stagione che può contribuire ad “inoculare” nel sistema stesso “dosi” di cultura e pratica partecipativa, riducendo, nel contempo, gli eccessi di una conflittualità esasperata, coltivati nel malinteso senso di una duplice inattuazione costituzionale.  Ed infatti, riducendosi gli spazi per continuare a realizzare una crescita uniforme a livello nazionale dei trattamenti retributivi, sia le parti sociali che il legislatore stanno oggi rivalutando il modello partecipativo non soltanto in una prospettiva, meramente difensiva, di controllo dei poteri dell’imprenditore, ma anche in quella (espansiva) della partecipazione ai profitti.

La partecipazione dei lavoratori alle performance dell’impresa anche quando sono positive, oltreché stimolare la competitività e la crescita dei salari reali, può implicare un mutamento profondo nella cultura e nella prassi delle relazioni tra capitale e lavoro, promuovendo condivisione di obiettivi e favorendo comportamenti responsabili e cooperativi. A questo fine, la legge 92 del 2012 aveva delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi “finalizzati a favorire le forme di coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa, attivate attraverso la stipulazione di un contratto collettivo aziendale”.

La legislazione delegata avrebbe dovuto prevedere, tra l’altro, la partecipazione dei lavoratori “agli utili o al capitale dell’impresa”, la istituzione di un consiglio di sorveglianza nelle società per azioni e nelle “società europee”, e “l’accesso privilegiato dei lavoratori dipendenti al possesso di azioni, quote del capitale dell’impresa, o diritti di opzione sulle stesse”. Senonché le previsioni della legge 92 del 2012 sono rimaste inattuate, poiché il Governo non ha esercitato la delega che gli era stata conferita.

 

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