L’ordinamento riconosce all’imprenditore il potere di procedere a licenziamenti collettivi nel caso di eccedenze di personale. La legge, però, prevede una disciplina volta a favorire la conservazione dell’occupazione e, nello stesso tempo, a tutelare il reddito dei lavoratori nel caso in cui l’eccedenza sia temporanea. A tal fine, ha introdotto la disciplina della “cassa integrazione guadagni” avente il compito di erogare integrazioni salariali nelle ipotesi di sospensione o riduzione temporanea della prestazione di lavoro determinata da fatti riguardanti l’impresa.

La Cassa interveniva, originariamente, ad integrare le retribuzioni degli operai dell’industria che avessero subito una riduzione dell’0rario di lavoro (ed una conseguente riduzione della retribuzione) a causa di eventi che non fossero “imputabili” né agli imprenditori né ai lavoratori. Nel tempo, tuttavia, il campo di intervento della Cassa integrazione guadagni è stato progressivamente esteso. Si è affermata una tendenza all’utilizzo delle integrazioni salariali per fini meramente assistenziali.

Molto spesso, infatti, esse sono state concesse anche periodi ben superiori a quelli originariamente previsti, ed in situazioni aziendali nelle quali la sospensione del lavoro non è affatto temporanea, in quanto non vi è alcuna prospettiva di effettiva ripresa dell’attività produttiva. La crisi economica del 2008, poi, con i conseguenti effetti sul tessuto produttivo, ha dato vita alla predisposizione di un apposito regime di integrazioni salariali “in deroga”, a beneficio sia dei lavoratori per i quali sono già stati consumati i periodi massimi “integrabili” con l’intervento ordinario e straordinario, sia dei dipendenti dei datori di lavoro esclusi dalla disciplina della Cassa integrazione guadagni.

Pertanto, il legislatore ha provveduto, nel 2015, ad un complessivo riordino della disciplina delle integrazioni salariali, in una prospettiva di nuova razionalizzazione che tiene anche presente l’esigenza di contenimento dei costi di finanziamento. È da notare che la nuova disciplina, per descrivere l’insieme degli interventi previsti, utilizza l’espressione “ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro”, al fine di distinguerli dagli ammortizzatori sociali applicabili “in caso di disoccupazione involontaria”, segnalando così la parziale comunanza di funzione e la diversità del campo di intervento. Entrambe le tipologie di “ammortizzatori”, infatti, sono desinate ad attenuare i problemi, e le tensioni, sociali derivanti dalla perdita (totale o parziale) della retribuzione.

Allo stesso tempo, anche per evitare abusi o sovrapposizioni, si intende rimarcare la distinzione tra gli interventi di sostegno del reddito diretti a mantenere in vita rapporti di lavoro destinati a riprendere la loro normale funzionalità e gli interventi di sostegno del reddito dei lavoratori che hanno perso la loro occupazione. Tra i presupposti per l’intervento delle integrazioni salariali è prevista la domanda del datore di lavoro. Il datore di lavoro ha la facoltà, non un obbligo, di presentare tale domanda, potendo decidere di gestire l’eccedenza di personale mediante il ricorso a licenziamenti collettivi.

In secondo luogo, la presentazione della domanda, anche ove sussistano tutti gli altri presupposti e requisiti previsti dalla legge, non determina automaticamente il diritto alle prestazioni di integrazione salariale a favore dei lavoratori, essendo necessario il provvedimento autorizzativo da parte dell’INPS (nel caso di integrazioni ordinarie) o del Ministro del lavoro e delle politiche sociali (nel caso di integrazioni straordinarie).

Qualora il datore di lavoro, in attesa del provvedimento autorizzativo, proceda unilateralmente alla sospensione delle prestazioni di lavoro e della relativa retribuzione, assume su di sé il rischio che l’autorizzazione non venga concessa. In tal caso, infatti, i lavoratori hanno diritto al risarcimento del danno consistente nelle retribuzioni perse, a meno che il datore di lavoro non provi che la sospensione della prestazione di lavoro è stata determinata da una causa di impossibilità a lui non imputabile.

Alla luce di tali principi, non appare agevole comprendere l’esatta portata della seguente disposizione: “Qualora dalla omessa o tardiva presentazione della domanda” (relativa al trattamento, ordinario o straordinario, di integrazione salariale) “derivi a danno dei lavoratori la perdita parziale o totale del diritto all’integrazione salariale, l’impresa è tenuta a corrispondere ai lavoratori stessi una somma di importo equivalente all’integrazione salariale non percepita”.

L’interpretazione più plausibile è quella di ritenere che tale disposizione sia applicabile esclusivamente nell’ipotesi in cui il datore di lavoro abbia omesso o tardato di presentare la domanda, pur avendo già provveduto a sospendere la prestazione di lavoro e la retribuzione. È allora ragionevole che il legislatore abbia inteso riconoscere il diritto dei lavoratori ad un risarcimento per i trattamenti di integrazione salariale persi, anche laddove la sospensione decisa dal datore di lavoro fosse stata determinata da causa di impossibilità a lui non imputabile.

 

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