La giurisprudenza, consolidando i vari accorgimenti nel <<diritto vivente>>, è stata la prima a contribuire all’estensione dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo:
- il primo accorgimento riguarda la teorica necessità di un’iscrizione bilaterale (imprenditore e lavoratore) al sindacato firmatario del contratto collettivo.
La giurisprudenza ha stabilito che è sufficiente che sia iscritto il dato di lavoro, affinché il contratto valga anche a favore del lavoratore iscritto. L’iscrizione dell’impresa, quindi, diviene condizione necessaria e sufficiente della validità del contratto anche per il lavoratore che ritenga di <<aderire>> ad esso, ovviamente presupponendosi che egli ne desideri l’applicazione. Se, al contrario, il lavoratore non domanda che il contratto gli sia applicato o, addirittura, vi si oppone, allora il contratto non potrà essergli applicato coattivamente.
il secondo accorgimento riguarda l’ipotesi dell’impresa sindacalmente non affiliata, la vera falla lasciata aperta dalla mancata attuazione dell’art. 39:
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- la giurisprudenza ha attribuito rilievo all’applicazione costante di un contratto collettivo da parte dell’impresa. Pur non essendo sindacalmente affiliata, e quindi tenuta ad applicare un certo contratto collettivo, se l’impresa lo ha applicato nei fatti, ciò fa sorgere, a suo carico, l’obbligo di continuare ad applicarlo ed un correlativo diritto soggettivo per il lavoratore, ferma restando la possibilità di questo di rigettare l’applicazione del contratto in questione.
- la Corte di Cassazione ha affermato un principio per effetto del quale la parte retributiva del contratto collettivo viene resa invocabile da tutti i lavoratori, pur nei confronti di imprese non affiliate.
La giurisprudenza, al riguardo, si è servita dell’art. 36 co. 1, dove si sancisce che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione, oltre che proporzionata al lavoro svolto, in ogni caso <<sufficiente>> a garantire un’esistenza libera e dignitosa. Essendo arduo stabilire un livello generale di sufficienza, la giurisprudenza ha pragmaticamente affermato che tale livello è quello individuato dai contratti collettivi. In definitiva, quindi, le tariffe retributive dei contratti sono state utilizzate come parametro di orientamento per determinare la retribuzione sufficiente, sul presupposto che nessuno più del sindacato dei lavoratori possa valutare il livello massimo di retribuzione consigliabile, attraverso il confronto con la controparte sociale.