L’evoluzione del diritto del lavoro non può essere compresa senza una adeguata considerazione dell’apporto rappresentato dal sindacato e dal ruolo che l’ordinamento statuale gli riconosce. Così come il diritto del lavoro, il fenomeno sindacale nasce con la grande industria. È nell’industria, come espressione del capitale, che si manifesta quella nuova forma di conflitto sociale, tra chi detiene i mezzi di produzione e chi, invece, per vivere può contare solo sulle sue energie lavorative e si trova costretto a metterle a disposizione di altri.

Ed è nell’industria, come luogo di produzione di massa, che si creano le condizioni perché tra questi ultimi si sviluppino quelle forme di solidarietà che li porta ad aggregarsi per difendere e sostenere i propri interessi, nella consapevolezza che, mediante l’unione delle forze, la debolezza delle posizioni di ciascuno nei confronti della controparte può essere superata o, quantomeno, attenuata. Il processo di nascita del fenomeno sindacale avviene nella più assoluta spontaneità ed informalità.

L’autotutela da parte degli stessi lavoratori si è realizzata organizzandosi spontaneamente per difendere i propri interessi collettivi, e forgiando gli specifici strumenti utili per la realizzazione di tale scopo: da un lato, lo sciopero, ossia l’astensione concertata dal lavoro per costringere il datore di lavoro a riconoscere migliori condizioni; d’altro lato, il contratto collettivo, ossia il contratto che definisce le condizioni spettanti ai lavoratori facenti parti del gruppo organizzato. Organizzazione sindacale, contratto collettivo e sciopero sono, ancora oggi, gli architravi che costituiscono quello specifico ramo del diritto del lavoro denominato diritto sindacale.

Pur nella molteplicità e nella diversità delle esperienze, le origini della fattispecie “organizzazione sindacale” sono comunemente individuate nella volontà di un gruppo di lavoratori di coalizzarsi per meglio difendere i propri interessi. E così, integrano quella fattispecie anche forme di coalizione rudimentale o occasionale, come quelle costituite appositamente per attivare i primi conflitti collettivi nei confronti del datore di lavoro.

In Italia, le organizzazioni sindacali potevano operare in una situazione formalmente di indifferenza legislativa, anche se era chiaramente percepibile un atteggiamento di sostanziale sfavore. In particolare, lo sciopero poteva configurare reato in base al codice penale sardo del 1859 (esteso all’intero Paese dopo l’unificazione del 1961), il quale puniva “tutte le intese degli operai allo scopo di sospendere, ostacolare o far rincarare il lavoro senza ragionevole causa”, stabilendo pene aggravate per i “principali istigatori o promotori”.

Soltanto nel 1890, con l’entrata in vigore del codice penale Zanardelli, lo sciopero, sul piano formale, fu ammesso, purché non attuato con “violenza o minaccia” tendenti a coartare “la libertà, individuale, di lavoro o di industria”. Restavano, però, in realtà, profonde limitazioni, poiché la giurisprudenza da un lato interpretò estensivamente la nozione di “violenza o minaccia”; d’altro lato, continuò a considerare lo sciopero, sul piano civilistico, un inadempimento contrattuale dell’obbligazione di lavoratore.

I regimi totalitari a cavallo delle due guerre mondiali si proponevano di negare l’esistenza del conflitto tra capitale e lavoro, e condussero alla totale privazione della libertà sindacale. Nell’esperienza comunista, l’eliminazione della proprietà privata e la collettivizzazione dei mezzi di produzione portò all’assorbimento del sistema di relazioni industriali nell’organizzazione statale.

L’esperienza corporativa, invece, pretendeva che le categorie produttive cooperassero alla realizzazione di fini pubblici ritenuti superiori, e di conseguenza le fece oggetto di una organica disciplina funzionale a questi fini. Il sindacato, così, perse le sue caratteristiche di associazione spontanea, libera ed autonoma, per diventare uno strumento dello Stato, chiamato a perseguire non più l’interesse privato dei singoli associati ma il superiore interesse pubblico dell’economia.

I sindacati, assorbiti così nell’organizzazione dello Stato e dotati di personalità di diritto pubblico, assumevano una sorta di rappresentanza legale della categoria. Essi avevano il potere di stipulare contratti collettivi, annoverati tra le fonti di diritto, i quali avevano efficacia generale e carattere inderogabile. Il conflitto, infine, era severamente represso, poiché tanto lo sciopero, quanto la serrata venivano sanzionati penalmente essendo considerati un attentato all’ordine pubblico economico.

La soluzione dei conflitti sindacali, quindi, era affidata esclusivamente al potere dello Stato, essendo prevista una Magistratura del lavoro, alla quale venivano deferite non solo le controversie collettive di natura giuridica in materia di interpretazione e di applicazione della legge e dei contratti collettivi corporativi, ma anche quelle di natura meramente economica, concernenti le richieste di nuove condizioni di lavoro, ove fosse risultato impossibile un accordo in sede sindacale. In questa ultima ipotesi, la Magistratura del lavoro doveva giudicare secondo equità, non limitandosi a contemperare gli interessi dei datori di lavoro con quelli dei lavoratori, poiché essa doveva tutelare gli interessi superiori della produzione.

 

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