La “razionalizzazione” del rapporto fiduciario voluta dalla costituzione repubblicana fa si che la fiducia non sia più presunta e che il governo debba invece presentarsi alle camere per il dibattito sulla fiducia, entro dieci giorni dall’entrata in carica.
Il voto di fiducia è disciplinato nei medesimi termini dai due regolamenti parlamentari: dal momento che entrambi richiedono concordemente che esso abbia ad oggetto una mozione motivata e si svolga per appello nominale, al fine di garantire il controllo dell’opinione pubblica.
Stando alla lettera del primo capoverso dell’art. 94, dovrebbe sussistere un parallelismo pressoché perfetto tra fiducia e sfiducia. Senonché mentre la normativa costituzionale e regolamentare sull’iniziale voto di fiducia delle camere è state fedelmente applicata nella prassi, quella concernente il voto di sfiducia ha solo raramente dato luogo a conseguenze di rilievo. Ma non si sono mai verificate crisi parlamentari provocate da un formale voto di sfiducia nei confronti di un governo già consolidatosi nella sua posizione.
In effetti, i rapporti governo-parlamento sono stati e sono tuttora diversi e più vari di quelli espressamente configurati dalla carta costituzionale. Al di fuori di ciò che la costituzione stabilisce, si è largamente affermata nella prassi l’eventualità che sia lo stesso governo a porre un’ulteriore questione di fiducia sull’approvazione o sulla reiezione di emendamenti o articoli o interi progetti di legge. Inoltre è ancora più notevole la circostanza che quelle fino ad ora interessanti i governi italiani siano quasi tutte classificabili come crisi extra-parlamentari.
In primo luogo, vi sono le crisi ce inevitabilmente si producono all’inizio di ciascuna legislatura.
In secondo luogo, si danno le crisi originate da quei voti delle camere che implicitamente comportano una manifestazione di sfiducia nei confronti del governo.
In terzo luogo, le crisi ministeriali vengono a volte causate da fattori interni alla compagine governativa, quali sono certi gravi dissensi tra i ministri, che non riescano a venire ricomposti e dunque compromettano la solidarietà dei componenti l’esecutivo.
In quarto luogo, possono anche esistere governi costituiti a termine, che assumono l’impegno politico di uscire di scena non appena si verifichi una data scadenza.
In quinto luogo, stanno le crisi extra-parlamentari nel senso più stretto, provocate da un qualunque alternarsi della coalizione di governo formata dai partiti politici di maggioranza. In altre parole, il governo entra di regola in crisi per il semplice fatto del ritiro dell’appoggio già espresso da una qualsiasi componente della coalizione stessa.
Di fronte alla realtà di tali crisi, si sono registrate vivaci reazioni dottrinali. Sul piano giuridico, del resto, non esistono valide ragioni che consentano di affermare l’incostituzionalità della crisi in questione. Senza dubbio, fra gli scopi che si proponeva l’assemblea costituente vi era quello di difendere la posizione del governo, per evitare le troppo frequenti interruzioni del rapporto fiduciario.
Anzitutto la morte o l’impedimento permanente del presidente del consiglio costituiscono una ragione automatica di crisi, poiché il presidente rappresenta il perno insostituibile del suo governo. Inoltre, altrettanto automatica è la causa di crisi consistente nell’elezione di nuove camere.
Ora, se è vero che il governo deve entrare in crisi anche in casi diversi dall’unica ipotesi prevista dall’art. 94, nulla sembra vietare che esso si dimetta in conseguenza di una sua libera valutazione del più vario genere, senza essere assurdamente costretto a rimanere in carica pur quando ormai lo ritenga politicamente inopportuno. La facoltà di dimettersi è propria di tutti i funzionari statali. Il governo deve in particolar modo aver fiducia di sé stesso.