L’articolo 72, riservando ai regolamenti parlamentari la disciplina del procedimento legislativo, pone il problema dell’eventuale parametricità dei regolamenti parlamentari, ai fini del giudizio di legittimità costituzionale.
E’ lecito chiedersi in altre parole se la corte costituzionale possa dichiarare l’illegittimità costituzionale di una legge non soltanto quando nel corso del suo procedimento di formazione siano state violate norme formalmente costituzionali, ma anche quando sono state violate esclusivamente norme contenute nel regolamento dell’una o dell’altra Camera.
La corte costituzionale si è pronunciata con la sentenza n.9 del 1959, negando la propria competenza a sindacare le violazioni di norme dei regolamenti parlamentari avvenute nel corso del procedimento legislativo, sulla base di 3 argomentazioni:
In primo luogo, la competenza della corte è limitata in relazione al procedimento di formazione delle leggi, e al controllo dell’osservanza delle sole norme formalmente costituzionali.
In secondo luogo per la parte, in cui l’articolo 72, attribuisce ai regolamenti parlamentari, il potere di stabilire in quali casi o forme un disegno di legge può essere assegnato alle commissioni in sede legislativa, non può considerarsi come una norma in bianco, in conseguenza della quale le disposizioni inserite assumono valore di norme costituzionali.
In terzo luogo come all’interpretazione di una disposizione anche l’osservanza è rimessa al reg. della stessa Camera.
Da tali argomenti si deduce innanzitutto il respingimento della tesi che considera materialmente costituzionali le norme dei regolamenti parlamentari e allo stesso tempo il respingimento della tesi secondo la quale la parametricità dei regolamenti parlamentari, deriverebbe dal qualificare le norme in essi contenute come norme interposte.
La corte infatti non ha riconosciuto la qualifica di norme interposte alle norme dei regolamenti parlamentari. La negazione di tale riconoscimento è da condividere, perché la sua affermazione produrrebbe conseguenze troppo drastiche. Infatti la violazione di qualsiasi norma di regolamenti parlamentari relativa al procedimento legislativo, determinerebbe l’incostituzionalità della legge. Del resto il vero significato dell’articolo 72 non è quello di attribuire valore di norme interposte alle norme dei regolamenti parlamentari, bensì quello di ribadire nella specifica materia la riserva di regolamento già affermata.
L’elemento fondamentale che esclude la possibilità di comprendere le norme dei regolamenti parlamentari tra le norme parametro, costituzionali o interposte, del giudizio di legittimità costituzionale, è la cedevolezza di tali norme.
È principio fondamentale della prassi parlamentare italiana quello secondo cui la deroga ad una norma del regolamento è possibile soltanto l’unanimità qualora cioè non vi sia opposizione da parte di alcuno. Se tale è la condizione necessaria per la deroga a norme di regolamenti parlamentari, resta dimostrato il carattere potenzialmente cedevole delle norme suddette. È proprio tale potenziale cedevolezza, che si attualizza ogni volta che una Camera deroga ad una norma del regolamento, senza che vi sia opposizione.
La sentenza n.154 del 1985 della corte costituzionale fu di grande di importanza poiché la corte doveva pronunciarsi: sull’ammissibilità o l’inammissibilità del giudizio di legittimità costituzionale sui regolamenti parlamentari.
Le disposizioni in questione erano quelle dei regolamenti di Camera e Senato, tributive ad entrambe della cosiddetta autodiachia, sulle controversie d’ impiego dei propri dipendenti. Il Parlamento infatti in base ad essa giudica sui ricorsi proposti dal personale dipendente, e ciò avrebbe escluso la possibilità per i dipendenti di adire successivamente alla giurisdizione esterna, ponendosi quindi in contrasto con gli articoli 24, 113 e 101, della costituzione.
La corte risolve il quesito circa la sindacabilità dei regolamenti parlamentari spostando l’asse del ragionamento dalla natura giuridica dell’atto alla posizione dell’organo che lo adotta. Il tipo di ragionamento è infatti il seguente: è inutile affrontare il problema della forza di legge dei regolamenti parlamentari ai fini della loro sindacabilità, poiché questa è comunque esclusa dalla posizione di indipendenza guarentigiata che l’ordinamento attribuisce a ciascuna Camera.
È nella logica di tale sistema che alle camere spetti una “indipendenza guarentigiata” nei confronti di qualsiasi altro potere, cui pertanto deve ritenersi precluso ogni sindacato degli atti di autonomia normativa ex articolo 64. Il Parlamento in quanto espressione immediata della sovranità popolare è diretto partecipe di tale sovranità ed i regolamenti, in quanto svolgimento diretto della costituzione, hanno una peculiarità e dimensione che ne impediscono la sindacabilità, se non si vuole negare che la riserva costituzionale di competenza regolamentare rientra tra le guarantigie disposte dalla costituzione per assicurare l’indipendenza dell’organo sovrano da ogni potere.
La sentenza della corte fa sorgere qualche dubbio in ordine alla possibilità che i regolamenti parlamentari siano insindacabili nell’ambito anche di una diversa competenza della corte, cioè in sede di conflitto tra poteri dello Stato.
L’affermazione della corte secondo cui l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari si fonde sull’esigenza di assicurare l’indipendenza delle camere sovrane da ogni altro potere, fa sorgere il dubbio che l’insindacabilità vale sempre e comunque.
È arrivato il momento di valutare gli argomenti addotti dalla corte a sostegno della propria decisione, anche se sarebbe meglio usare il singolare poiché tutta la motivazione della sentenza è basata su un argomento di portata generale: la posizione centrale attribuita al Parlamento dalla costituzione. Tale posizione derivante dalla tipo di democrazia parlamentare vigente, nel quale il Parlamento è espressione immediata della sovranità popolare, assicura le camere un’indipendenza guarentigiata nei confronti di tutti gli altri poteri dello Stato. Le guarentigie che tutelano tale posizione d’ indipendenza vengono considerate nel loro insieme.
Non vi è dubbio che il Parlamento sia posto al centro del sistema astratto da numerose norme costituzionali che gli attribuiscono rilevanti possibilità di intervento, nei confronti degli altri poteri dello Stato. Tuttavia, la riconosciuta posizione centrale del Parlamento non assicura una posizione d’indipendenza assoluta, nei confronti degli altri poteri dello Stato, che la corte considera invece come conseguenza necessaria: in realtà, la posizione del Parlamento è quella che risulta disegnata in positivo dalla costituzione. E tale disegno, se da un lato non esclude rilevanti possibilità di intervento di altri organi costituzionali nei confronti delle camere, dall’altra comunque attribuisce una garanzia. Ex: infatti nel primo caso occorre ricordare ad esempio il potere di scioglimento anticipato delle camere che l’articolo 88 conferisce al presidente della Repubblica.
Tali possibilità di intervento dall’esterno consentono un primo approfondimento indicativo del concetto di centralità del Parlamento: e non significa indipendenza delle 2 camere nei confronti degli altri organi costituzionali, intesa come esclusione assoluta da ogni ingerenza esterna. La posizione delle camere sotto questo aspetto è in via di principio analogo a quelle degli altri poteri dello Stato, cioè che ognuno di essi ha diritto al rispetto delle propri competenze nei limiti fissati dalle norme costituzionali. Questa garanzia non comporta una posizione di prevalenza nei confronti degli altri organi costituzionali. Infatti non si capirebbe come un organo costituzionale, in teoria definito prevalente, possa essere parte in posizione di parità, di un conflitto con un altro organo costituzionale, sottoponendosi per di più alla decisione di un terzo organo costituzionale.
Centralità del Parlamento non significa dunque l’esclusione da interventi di altri organi costituzionali nei confronti di ciascuna Camera, né significa prevalenza, del Parlamento nei confronti degli altri poteri dello Stato.
Se la centralità del Parlamento non consiste, come afferma la corte, in una indipendenza che esclude qualsiasi ingerenza da parte di altri poteri dello Stato, cade la premessa di ordine generale per poter giustificare, in termini di rapporti tra organi costituzionali, l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari
Tuttavia si tratta comunque di verificare se tra le guarantigie derivanti dalla posizione centrale delle camere, va annoverato anche il principio d’ insindacabilità dei regolamenti parlamentari. Ma tale verifica va fatta in positivo sulla base delle norme costituzionali vigenti e non invece ricomprendendo il principio dell’ insindacabilità dei regolamenti parlamentari, tra le guarantigie della posizione del Parlamento, come conseguenza automatica dell’indipendenza.
L’affermazione della corte secondo cui la posizione del Parlamento guarentigiata è sicuramente da condividere alla luce delle diverse immunità parlamentari previste dall’articolo 68 e dall’articolo 64.
Non vi è dubbio infatti che la riserva di regolamento parlamentare e dunque l’autonomia costituzionale attribuita a ciascuna Camera per la disciplina della propria organizzazione e del proprio funzionamento costituiscono una delle garanzie peculiari del carattere di centralità delle due camere.
Il punto da esaminare, una volta negato che il principio del insindacabilità dei regolamenti parlamentari rappresentano una conseguenza meccanica del principio di indipendenza del Parlamento, riguarda l’interpretazione da dare all’articolo 64. In particolare se la guarentigia in esse contenute si risolva nel conferimento dell’autonomia costituzionale a ciascuna Camera, ovvero se accanto ad essa debba considerarsi implicitamente prevista anche l’ulteriore guarentigia, consistente nell’ insindacabilità delle norme frutto dell’esercizio di quell’autonomia. Questa seconda possibilità va però decisamente esclusa innanzitutto perché l’art. 64 non offre alcun appiglio per ricavare da esso il principio di insindacabilità dei regolamenti parlamentari.
In conclusione non si può condividere l’impostazione data dalla corte al problema della sindacabilità dei regolamenti parlamentari, in termini di rapporti tra organi costituzionali, poiché l’ insindacabilità di tali atti non sembra ricavabile dalla posizione del Parlamento nel nostro sistema costituzionale ne dalla possibilità di considerare quel principio come una guarentigia parlamentare implicitamente prevista dall’articolo 64.
La corte viene nuovamente investita nel 1993 di una questione di legittimità costituzionale relativa ad una disposizione del regolamento della Camera. La questione era stata sollevata dal tribunale di Roma, e la fattispecie di merito riguardava le richieste di risarcimento di danni avanzate nei confronti dei singoli parlamentari in relazione a dichiarazioni di questi ultimi ritenute diffamatorie. In ambedue i casi, non vi era stata in concreto, una deliberazione della Camera dei deputati, in merito alla qualificazione di queste opinioni espresse, come rientranti o meno della funzione parlamentare.
Tale circostanza avrebbe determinato una illegittima compressione del diritto di difesa del cittadino, in cui verrebbe ad essere preclusa la possibilità di convenire in giudizio un parlamentare anche nell’ipotesi di opinioni espresse al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni, con violazione dell’articolo24. Inquesta prospettiva la norma del regolamento della Camera, sarebbe illegittimo per violazione dell’articolo 24.
La corte, pertanto, conferma nella sostanza quanto affermato per la prima volta la sentenza 154 del 1985, in ordine all’inidoneità dei regolamenti parlamentari ha costituire oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, anche se stavolta non vi è alcun cenno alla particolare posizione delle camere come fondamento del insindacabilità in sede di giudizio di legittimità costituzionale dei regolamenti parlamentari. Tale insindacabilità sembra essere ricavata da un’interpretazione, più tradizionale del insindacabilità dei regolamenti parlamentari, quella secondo cui essi non sarebbero qualificabili come atti aventi forza di legge.