Perché una comunione di trasformi in società è necessario e sufficiente che i comproprietari si servano dei beni per l’esercizio di una comune attività di impresa.
Ma, per dar vita ad una società l’art. 2247 richiede un accordo delle parti anche in merito ai conferimenti e, tale accordo non c’è qualora i comproprietari si limitano ad utilizzare l’azienda comune in una comune attività di impresa.
Tale obiezione porterebbe ad ammettere che è possibile l’esercizio di impresa collettiva, fermo restando l’applicazione del regime patrimoniale della comunione per i beni utilizzati, cioè è ammissibile una impresa collettiva priva di autonomia patrimoniale. Tale fenomeno è detto comunione di impresa.
E di comunione di impresa e non di società bisogna parlare ogni volta che un’azienda in comunione venga utilizzata dai comproprietari per l’esercizio in comune di attività di impresa, senza precisi accordi in merito al conferimento in società dei relativi beni.
Ma tale obiezione sono prive di fondamento, perché una società può essere conclusa anche con fatti concludenti, detta società di fatto, e per fatti concludenti può avvenire anche il conferimento, quando un atto scritto non sia richiesto dalla natura dei beni conferiti.
Non vi è dubbio che l’effettivo esercizio di attività di impresa da parte dei comproprietari di un’azienda è oggettivamente apprezzabile come non equivoco atto di destinazione societaria dei relativi beni. Quindi, i comproprietari hanno voluto, per fatti concludenti, modificare la condizione giuridica dei beni comuni passando dalla comunione (mancanza di autonomia patrimoniale) alla società di fatto (formazione di un patrimonio autonomo).
In conclusione, non rimane spazio per la comunione di impresa.