La piccola impresa e, soprattutto, la piccola impresa artigiana godono di una legislazione speciale di ausilio e di sostegno. Tali leggi speciali spesso prevedono autonomi criteri di identificazione delle imprese destinatarie, non coincidenti con quelli fissati dall’art. 2083 . Essendo definizioni dettate da leggi speciali esse non pongono alcun problema di coordinamento con la nozione civilistica e fallimentare di piccolo imprenditore. Tuttavia, resta fermo che, per stabilire se un dato imprenditore è esonerato dal fallimento in quanto piccolo imprenditore, si deve guardare solo al rispetto dei limiti dimensionali fissati dall’art. 1, 2° comma, legge fallimentare. Questo principio subiva però fino a qualche tempo fa un’eccezione per l’impresa artigiana.
La legge n. 860 del 25/07/1956 (legge sull’artigianato) affermava espressamente all’art. 1, 1° comma, che l’impresa rispondente ai requisiti fondamentali fissati nella stessa legge era da considerarsi artigiana a tutti gli effetti di legge, e quindi anche agli effetti civilistici e fallimentari. La nozione speciale sostituiva perciò quella del codice e della legge fallimentare.
Il dato caratterizzante l’impresa artigiana risiedeva nella natura artistica o usuale dei beni o servizi prodotti e non più nella prevalenza del lavoro familiare nel processo produttivo.
La qualifica artigiana era riconosciuta anche alle imprese costituite in forma di società, purché si trattasse di società cooperative o in nome collettivo ed alla condizione che la maggioranza dei soci partecipi personalmente al lavoro e, nell’impresa, il lavoro abbia funzione preminente sul capitale, art. 3, 1° comma.
Perciò, le società artigiane dovevano considerarsi esonerate dal fallimento.
La legge n. 860/1956 è stata abrogata dalla legge n. 443 del 08/08/1985, legge quadro sull’artigianato.
La nuova legge contiene una propria definizione dell’impresa artigiana, basata :
a. l’oggetto dell’impresa, che può essere costituito da qualsiasi attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di prestazioni di servizi, sia pure con alcune limitazioni ed esclusioni ;
b. sul ruolo dell’artigiano nell’impresa, richiedendosi che esso svolga in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo, art. 2, 1° comma , ma non che il suo lavoro prevalga sugli altri fattori produttivi.
Continuano ad essere imposti limiti per quanto riguarda i dipendenti, ma il numero massimo è più elevato rispetto alla legge del 1956. Ma, è riaffermato il principio che il personale dipendente deve essere personalmente diretto dall’artigiano ed è stabilito che l’imprenditore artigiano può essere titolare di una sola impresa artigiana, art. 3, 5° co.
La legge del 1985 riafferma altresì la qualifica artigiana delle imprese costituite in forma di società cooperativa o in nome collettivo, a condizione che la maggioranza dei soci, svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che nell’impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale, art. 3, 2° comma.
Inoltre, la qualifica di impresa artigiana è stata successivamente estesa, dapprima alla società a responsabilità limitata unipersonale ed alla società in accomandita semplice, purché il socio unico o tutti i soci accomandatari siano in possesso dei requisiti previsti per l’imprenditore artigiano e non siano nel contempo socio unico di un’altra s.r.l. o socio di un’altra s.a.s. (art. 3, 3° comma, legge n. 133/1997) e, recentemente, anche alla s.r.l. pluripersonale a condizione che la maggioranza dei soci svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e detenga la maggioranza del capitale sociale e degli organi deliberanti della società, art. 5, 3° comma, legge n. 57/2001 .
La categoria delle imprese artigiane risulta quindi notevolmente ampliata rispetto alla legge precedente. È scomparso ogni riferimento alla natura artistica o usuale dei beni o servizi prodotti e si qualificano artigiane anche le imprese di costruzioni edili. Inoltre, l’elevazione del numero dei dipendenti consente di conservare la qualifica artigiana anche raggiungendo le dimensioni di una piccola industria di qualità.
L’impresa artigiana si caratterizza anche per il rilievo del lavoro personale dell’imprenditore nel processo produttivo e per la funzione preminente del lavoro sul capitale investito, ma da nessuna norma della legge speciale è invece consentito desumere che debba necessariamente ricorrere anche la prevalenza del lavoro proprio e dei componenti della famiglia sul lavoro altrui e sul capitale investito. Perciò, si deve convenire che la legge quadro ha realizzato una frattura rispetto alla legge del 1956 e preclude ogni residua possibilità di ricondurre il nuovo modello di impresa artigiana nell’alveo della definizione codicistica di piccolo imprenditore.
Lo scopo della legge quadro era quello di fissare i principi direttivi che dovrebbero essere osservati dalle regioni nell’emanazione dei provvedimenti a favore dell’artigianato, art. 1, 2° comma.
Il riconoscimento della qualifica artigiana in base alla legge quadro non basta per sottrarre l’artigiano allo statuto dell’imprenditore commerciale. È necessario altresì che sia rispettato il criterio della prevalenza fissato dall’art. 2083, ed i limiti dimensionali fissati dall’art. 1, 2° comma, legge fallimentare . In mancanza, l’imprenditore sarà artigiano ai fini delle provvidenze regionali, ma dovrà qualificarsi imprenditore commerciale non piccolo ai fini civilistici e/o del diritto fallimentare, quindi potrà fallire. Non costituisce ostacolo alla dichiarazione di fallimento il riconosciuto carattere costitutivo dell’iscrizione nell’albo delle imprese artigiane, art. 5 , dato che l’iscrizione non preclude all’autorità giudiziaria di accertare se effettivamente sussistano i presupposti per il riconoscimento della qualifica di piccolo imprenditore.
Secondo la giurisprudenza, l’imprenditore artigiano è soggetto a fallimento quando per l’organizzazione e l’espansione della sua azienda, egli abbia industrializzato la produzione, conferendo al suo guadagno, di regola modesto, i caratteri del profitto.
Anche l’esonero delle società artigiane al fallimento si deve ritenere cessato. Oggi infatti, non è più possibile sostenere che la legislazione speciale in tema di artigianato configura deroga ai principi fissati dalla legge fallimentare. E ciò per due motivi:
– perché la legge del 1985 opera solo ai fini della normativa di agevolazione;
– perché la nuova disciplina fallimentare è univoca nello stabilire che ai fini della dichiarazione di fallimento rileva solo la definizione di piccolo imprenditore che essa stessa detta all’art. 1, 2° comma .
Ne consegue che una società artigiana godrà delle provvidenze di cui godono le altre imprese artigiane, ma in caso di dissesto fallirà al pari di ogni altra società che esercita attività commerciale, se supera i limiti dimensionali della piccola impresa.
Non è sostenibile che le imprese artigiane siano imprese civili e non commerciali per difetto del requisito dell’industrialità. Oggi, come ieri, l’imprenditore artigiano non è che un piccolo industriale e quindi, giuridicamente, rientra nella categoria degli imprenditori commerciali, infatti, alcune delle attività esercitabili dall’impresa artigiana sono espressamente ricomprese nell’elenco delle attività commerciali di cui all’art. 2195 c.c.
In conclusione: Al pari di ogni altro imprenditore commerciale, l’imprenditore artigiano individuale e le società artigiane saranno esonerate dal fallimento solo se in concreto ricorrono i presupposti per poter essere qualificati piccoli imprenditori in base all’art. 1, 2° comma, legge fallimentare.