Ogni azione costituisce una partecipazione sociale e attribuisce al suo titolare un complesso unitario di diritti e poteri di natura amministrativa (diritto di intervento e di voto nelle assemblee, diritto di esaminare determinati libri sociali etc.) di natura patrimoniale (diritto agli utili, diritto alla quota di liquidazione) e anche a contenuto complesso amministrativo e patrimoniale (diritto di opzione, diritto all’assegnazione di azioni gratuite, diritto di recesso).

Una caratteristica delle azioni sono l’uguaglianza di diritti. Si tratta di uguaglianza relativa e non assoluta ed inoltre di un’uguaglianza oggettiva non soggettiva. L’uguaglianza è relativa in quanto è possibile creare categorie di azioni fornite di diritti diversi. Da qui la distinzione tra azioni ordinarie ed azioni di categoria o speciali. L’uguaglianza è poi oggettiva e non soggettiva. Uguali sono i diritti che ogni azione attribuisce, non i diritti di cui ciascun azionista globalmente dispone.

Infatti, se è vero che alcuni diritti dell’azionista sono indipendenti dal numero di azioni possedute, non è meno vero che i diritti più significativi spettano in proporzione del numero di azioni possedute. Ad esempio, il diritto di voto, il diritto agli utili ed alla quota di liquidazione ed il diritto di opzione. Proprio con riferimento a questi diritti che si coglie la situazione di disuguaglianza soggettiva degli azionisti. È vero che ogni azione attribuisce il diritto di voto, ma diversa è la posizione di potere nella società di chi è titolare di una sola azione e di un voto, rispetto a chi è titolare di mille azioni e di mille voti.

Tali disuguaglianze soggettive sono però perfettamente legittime e giuste, perché su di esse si fonda l’ordinato funzionamento di un organismo economico a base capitalistica. Chi ha più conferimenti e più rischia ha più potere e può imporre, nel rispetto della legalità, la propria volontà alla minoranza. Il che non esclude che, quando entrano in gioco interessi pubblici di particolare rilievo, siano introdotte deroghe al principio capitalistico, con il riconoscimento allo Stato o ad enti pubblici di poteri societari svincolati dall’ammontare della partecipazione azionaria o addirittura dalla qualità stessa di azionista.

È questo ad esempio il caso del potere di veto all’adozione di una serie di delibere di particolare rilievo (scioglimento della società, trasferimento dell’azienda, fusione, scissione etc.) introdotto per legge negli statuti di società operanti in settori strategici (difesa, trasporti, telecomunicazioni, fonti di energia) in passato controllate dallo Stato. E ciò al fine di evitare che la recente privatizzazione di tali società possa dar luogo a decisioni in contrasto con gli obiettivi nazionali di politica economica e finanziaria.

 

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