Libera concorrenza e concorrenza sleale
Concorrenza è competizione tra più imprenditori e quindi libera concorrenza è anche libertà di competizione. La legittimità della competizione è espressamente riconosciuta dalla legge e quindi legittimi sono anche i risultati della competizione anche se questi si traducono in un danno per qualcuno di coloro che partecipano alla competizione stessa. La legge richiede però che siano rispettate le regole del gioco e quindi che il comportamento dei singoli competitori sia attuato con il rispetto di quelle norme di costume che si riassumono nella correttezza professionale. Una concorrenza sleale, ossia attuata senza il rispetto di queste norme, è un comportamento antigiuridico in quanto contrasta con le convinzioni e il costume della categorie professionali interessate.
In sede internazionale la repressione della concorrenza sleale è attuata in base all’art. 10 introdotto con una revisione de 1925 alla Convenzione internazionale stipulata a Parigi nel 1883. Nel diritto interno invece le norme riguardanti la concorrenza sleale sono poste agli art. 2598 – 2601 del codice civile.
In entrambe le normative, interna ed internazionale, viene delimitata la categoria della concorrenza sleale mediante l’enunciazione esplicita di alcuni atti qualificati come atti di concorrenza sleale e mediante la enunciazione di un criterio generale per valutare gli atti non specificamente qualificati come atti di concorrenza sleale. Occorre subito dire che non vi è una perfetta coincidenza tra le formule usate nelle due normative. Infatti la convenzione considera atto di concorrenza sleale le false affermazioni fatte nell’esercizio del commercio idonee a determinare il discredito dello stabilimento, dei prodotti e dell’attività industriale o commerciale di un concorrente mentre la normativa italiana (art. 2598) considera atto di concorrenza sleale la diffusione di notizie e di apprezzamenti sui prodotti o sull’attività di altri concorrenti in modo da provocarne il discredito, o l’appropriarsi di pregi dei prodotti o dell’attività dei concorrenti.
Non vi è quindi nella normativa italiana un riferimento alla falsità delle notizie o degli apprezzamenti e dell’occasione in cui esse vengono fatte e inoltre la normativa italiana considera l’appropriazione di pregi come atto di concorrenza sleale mentre questo non avviene nella convenzione. Il criterio generale posto dalla convenzione per valutare gli atti non espressamente qualificati come atti di concorrenza sleale è quello della contrarietà dell’atto agli usi onesti industriali e commerciali mentre quello posto dalla normativa italiana è la non conformità dell’atto alla correttezza professionale e la sua idoneità a danneggiare gli altri imprenditori.
Tuttavia, al di la delle differenze sembra che il criterio posto non sia sostanzialmente differente in quanto non vi è dubbio che i principi di correttezza professionale della normativa italiana corrispondano agli usi onesti industriali e commerciali della convenzione in quanto i principi di correttezza professionale altro non possono essere che le norme di costume elaborate dalla categoria professionale nell’ambito dei rapporti tra i rappresentanti della categoria stessa.