La società in nome collettivo si traduce in una organizzazione per l’ esercizio in comune della attività d’ impresa incentrata, sotto il profilo patrimoniale, su due principi:

1) la destinazione dei beni conferiti all’ esercizio dell’ attività;

2) la responsabilità personale dei soci per le obbligazioni sociali, in via illimitata, solidale e sussidiaria, nel senso che ogni socio risponde dell’ attività comune con tutti i suoi beni, ma in solido con gli altri e previa escussione del patrimonio sociale da parte dei creditori.

I due principi interferiscono tra loro e si condizionano a vicenda.

A) La creazione e l’ esercizio di un’ attività d’ impresa esigono investimenti a tale scopo finalizzati, e a ciò provvedono i soci con i conferimenti, formandosi così un aggregato di beni (che si qualificano) comuni o sociali.

Sotto il profilo giuridico, la destinazione si traduce in vincoli sui beni sociali, nei confronti vuoi dei soci vuoi dei terzi.

Il primo vincolo è la inammissibilità di compensazione fra il credito del terzo verso il socio e il debito di quello stesso terzo nei confronti della società (art. 2271).

Il secondo vincolo è puntualizzato dall’ art. 2256, secondo cui il socio non può servirsi dei beni sociali per fini estranei a quelli propri della società.

Il terzo vincolo è nei confronti dei creditori, divisi in sociali e particolari del socio.

I creditori sociali dovranno far valere le loro pretese sui beni destinati all’ attività d’ impresa, dunque sul patrimonio della società, e solo dopo l’ infruttuosa escussione di questo saranno legittimati a chiedere “il pagamento dai singoli soci”. I creditori particolari del socio non possono invece agire sui beni conferiti dal socio nè sulla quota di patrimonio sociale di costui, ma solo sugli utili che eventualmente gli spettano; nè possono chiedere la liquidazione della quota del loro debitore finchè dura la società.

Le uniche eccezioni sono in caso di fallimento del socio, che allora diviene inidoneo alla gestione collettiva dell’ impresa ed è perciò escluso di diritto, sicché il fallimento acquisirà la quota del socio previa liquidazione della stessa; e l’ ipotesi di proroga della società, nel qual caso il creditore individuale non è obbligato a rispettare il prolungamento di durata della società, il vincolo di conservazione dei valori destinati all’ attività d’ impresa fermandosi alla durata del rapporto societario originariamente stabilita.

La destinazione dei beni all’ attività d’ impresa e la separatezza che si determinano fra patrimonio sociale e personale dei soci, sono enfatizzate dall’ art. 2266, ai sensi del quale la società acquista e assume obbligazioni tramite i soci che ne hanno la rappresentanza e sta in giudizio in persona dei medesimi.

B) La responsabilità dei soci è, si diceva, illimitata e solidale. La responsabilità dei soci, se illimitata, si aggiunge dunque a quella che fa carico alla società, e la solidarietà è fra i soci, non nei confronti della società. Ne discende che le pretese dei creditori sociali devono prima essere soddisfatte con il patrimonio sociale. L’ esperimento non soddisfacente anche in parte della pretesa nei confronti della società costituisce così condizione di procedibilità dell’ azione del creditore mirata ad ottenere il pagamento del socio.

Si usa perciò dire che il socio gode del BENEFICIO DI ESCUSSIONE; ed ogni socio escusso dal creditore sociale potrà poi chiamare in causa i consoci, stante il rapporto di solidarietà che intercorre fra loro a fronte della pretesa del terzo. Il principio è tassativo. I soci per vero possono limitare il proprio rischio, e circoscrivere la partecipazione di ciascuno di essi alle perdite. Ma tale patto non ha effetto nei confronti dei terzi sicché limita la sua efficacia nello stabilire una organizzazione obbligatoria interna ai soci quanto alla misura della rispettiva sopportazione delle perdite, che ogni socio potrà far valere nei confronti dei consoci, ferma restando però la responsabilità illimitata e solidale di ciascuno e di tutti nei confronti dei terzi. I

l patto in parola è comunque nullo quando esclude interamente uno o più soci della partecipazione alle perdite (cosiddetto divieto di patto leonino: art. 2265). La natura e la consistenza dei beni destinati all’ esercizio dell’impresa varieranno inevitabilmente per effetto del carattere dinamico dell’ attività d’ impresa. La conservazione della destinazione all’ esercizio avrà ad oggetto allora non i beni conferiti nella loro composizione materiale, ma il valore di quei beni seppure rappresentato da o se si vuole calcolato sugli altri e diversi beni che facciano capo alla società.

Da qui il precetto di indicare nell’ atto costitutivo il valore dei beni conferiti perchè possa aversi società in nome collettivo regolare. Il valore complessivo dei conferimenti al momento in cui vengono effettuati, calcolato in valuta ed espresso numericamente viene denominato CAPITALE (o capitale sociale o nominale); in termini economici rappresenta la ricchezza che i soci decidono di investire nell’ attività d’ impresa e di vincolare al suo esercizio; la sua formazione “fittizia” è punita anche penalmente.

Il complesso dei beni che in qualsiasi momento faccia capo all’ impresa è invece denominato PATRIMONIO, e il suo valore corrisponde al valore calcolato sommando il valore dei beni esistenti quando quel valore si voglia accertare, beni che naturalmente variano rispetto al momento originario della società vuoi per natura vuoi per consistenza economica.

La destinazione vincolane del capitale all’ esercizio dell’ attività d’ impresa può subire deroga. I soci potranno così decidere, nell’ esplicazione della loro autonomia privata, di aumentare il capitale effettuando nuovi conferimenti, o di ridurlo rimborsando a ciascuno di essi parte dei conferimenti o liberandolo dall’ obbligo di effettuarli. La legge consente l’ esecuzione della riduzione del capitale solo decorsi 3 mesi dall’ iscrizione della relativa delibera nel registro delle imprese; entro quel termine ogni creditore è legittimato ad opporsi.

Sicché l’ opposizione del creditore, anche di un solo creditore, impedisce l’ esecuzione della delibera di riduzione ed impone la conservazione della destinazione nella misura originariamente stabilita. Nonostante l’ opposizione il tribunale può tuttavia disporre l’ esecuzione della riduzione di capitale, ma solo se la società presti idonea garanzia, così confermandosi la sostanza della impostazione poc’ anzi enunciata senza irrigidirla inutilmente.

C) Il ruolo svolto dal capitale in punto di organizzazione dei beni appartenenti alla società si esprime anche nella disciplina stabilita dalla legge in materia di utili (art. 2303). La individuazione dell’ utile dell’ attività d’ impresa esige evidentemente un processo di accertamento e di valutazione delle situazioni soggettive e passive riferite all’ attività d’ impresa.

Ciò avviene con la redazione di un bilancio in un contesto di scritture contabili obbligatoriamente tenute, e di queste è richiamo espresso per la società in nome collettivo. Nel bilancio verranno così registrate, in elencazione contrapposte, tutte le situazioni attive e passive facenti capo alla società (cosiddetti attivo e passivo del bilancio).

Nel passivo sono iscritte però non solo le passività reali (debiti, accantonamenti a fronte dei rischi presunti), ma anche poste passive ideali, delle quali la più importante è il capitale. La iscrizione del capitale nella espressione numerica che si è poc anzi indicata nel passivo del bilancio provoca un’ immediata evidente conseguenza. Giacchè, già per principio logico, utile è ciò che si conserva del valore dell’ attivo una volta sottratto il valore del passivo.

Il che si traduce nel non potersi individuare utile dell’ impresa senza preventivamente rispettare il vincolo di destinazione del capitale, perchè al valore della posta passiva capitale deve corrispondere eguale valore in attivo, e non può parlarsi di utile se l’ attivo non sopravanzi il passivo tra le cui voci è iscritto anche il capitale: onde giacchè il capitale non esprime debito o passività reale alcuna ma semplicemente, il valore dei beni al momento del loro conferimento, un valore di beni corrispondente al valore del capitale deve restare nell’ attivo e conservarsi perciò destinato all’ esercizio dell’ impresa.

L’ art. 2303.2 stabilisce che non può farsi luogo a ripartizione di utili se si verifica una perdita di capitale sociale, fino a che il capitale sociale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente. Il non poter distribuire utili in una circostanza del genere, come è enunciato dall’ art. 2303.2 è la conseguenza immediata del principio di organizzazione del patrimonio della società ai sensi del quale il capitale è destinato all’ esercizio dell’ impresa e non può essere da questa distratto camuffandolo per utile.

Anche l’ art. 2303.1 pone una tutela alla destinazione del capitale, mirato ad evitare pratiche elusive. Il bilancio è una rappresentazione di valori, per la determinazione dei quali la legge pone regole assai dettagliate. Il mancato rispetto di quelle regole e la valutazione dei cespiti dell’ attivo per importi superiori o dei cespiti del passivo per importi inferiori a come invece dovuto altera evidentemente i risultati, facendo emergere un utile non realmente conseguito, dove “realmente conseguente” sta per conseguito in base a valutazioni rispettose della legge.

Si ha così un sistema organizzativo dell’ intero patrimonio dell’ impresa di ben maggiore respiro di quello di cui si è trattato in prima battuta parlando di destinazione del capitale, ma che quella destinazione in primis comprende e rafforza; e che per ciò che adesso ci occupa consente di stabilire: che l’ utile regolarmente conseguito è solo quello calcolato per effetto di valutazioni effettuate a termini di legge; e che quando così non sia, non vi è in realtà utile distribuibile, perchè ove lo si distribuisse non verrebbe a monte rispettata la disciplina che comporta anche, o piuttosto si impernia sul vincolo di destinazione del capitale all’ esercizio dell’ attività d’ impresa.

 

 

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