La dimensione dell’impresa e’ il secondo criterio di differenziazione della disciplina degli imprenditori. Il codice civile distingue il piccolo imprenditore e quello medio-grande. Il piccolo imprenditore e’ sottoposto allo statuto generale dell’imprenditore ed e’ esonerato dal tenere le scritture contabili, dal fallimento e da altre procedure concorsuali e ha di regola ora l’iscrizione ai pubblici registri con funzione di pubblicità notizia. Diverso e’ il discorso per la legislazione speciale. In questa la piccola impresa o alcune specifiche piccole imprese sono destinatarie di una ricca ed articolata disciplina, ispirata dalla finalità di favorirne la sopravvivenza attraverso provvidenze ed agevolazioni lavoristiche e tributarie.
Nel Cod. Civ. e’ espressamente detto nell’art.2083: “ e’ imprenditore piccolo il coltivatore del fondo, gli artigiani, piccoli commercianti, e coloro che esercitano un’attività’ professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”. Quindi per aversi una piccola impresa e’ necessario che l’imprenditore presti il proprio lavoro nell’impresa; il suo lavoro e quello degli eventuali parenti che collaborano nell’impresa prevalgano rispetto al lavoro altrui e ai capitali altrui investiti nell’impresa;non è perciò mai piccolo imprenditore chi investe ingenti capitali nell’impresa anche se non si avvale di alcun collaboratore.
Altro importante fattore e’ la non soggezione al fallimento.
La versione originaria della legge fallimentare del piccolo imprenditore prevedeva che:
ART. 1 = sono piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale che sono stati riconosciuti titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. Se manca l’accertamento del reddito sono considerati piccoli imprenditori quelli esercenti un’attività commerciale nella cui azienda è stato investito un capitale non superiore a Lit. 900.000. Quindi il piccolo imprenditore persona fisica era individuato esclusivamente in base a parametri monetari. Successivamente sono intervenute di due modifiche:
– abrogazione del criterio del reddito (1974) con l’introduzione del IRPEF (criterio del reddito sulle persone fisiche).
Il criterio del reddito fissato dalla legge fallimentare non era perciò più applicabile)
– abrogazione del criterio del capitale investito non superiore a Lit. 900.000 dichiarato incostituzionale nel 1989
(in quanto non piú idoneo in seguito alla svalutazione monetaria).
La riforma del diritto fallimentare del 2006, asua volta modificata dal decreto correttivo del 2007, hareintrodotto nell’art. 1 – comma 2° – un sistema basato su criteri esclusivamente quantitativi e monetari, cercando di non ripetere gli errori del passato. In primo luogo la nuova disposizione fallimentare non definisce più chi è “piccolo imprenditore”, ma individua alcuni parametri al di sotto dei quali l’imprenditore commerciale non fallisce. In base all’attuale disciplina, dunque, non è soggetto a fallimento l’imprenditore che dimostri il possesso congiunto dei seguenti requisiti:
a) aver avuto nei 3 esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore a trecentomila euro;
b) aver realizzato, nei 3 esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore a duecentomila euro;
c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore a cinquecentomila euro.
Basta aver superato anche solo uno dei limiti dimensionali per essere esposto a fallimento.