Nel divieto alla concorrenza a carico di chi aliena l’azienda, come abbiamo visto (art. 2557), ha una durata limitato di cinque anni. Lo stesso limite temporale è posto dall’art. 2596 per tutti i patti che limitano la concorrenza e che sono validi soltanto se circoscritti ad una determinata zona o ad una determinata attività .
Questa preoccupazione del legislatore risponde al precetto costituzionale che sancisce la libertà dell’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.). Tale libertà, dovendo valere per tutti, porta necessariamente all’affermazione del principio di libertà della concorrenza, la quale assume due aspetti rilevanti:
- libertà dei soggetti economici, che si traduce nel divieto della concorrenza sleale
- situazione di mercato, che si traduce nella disciplina dell’antitrust
Concorrenza sleale
Il divieto alla concorrenza sleale ha per obiettivo il rispetto delle regole del gioco tra concorrenti. L’art. 2598, che enuncia tale divieto, indica tre categorie di atti di concorrenza sleale:
- atti confusori, con cui l’imprenditore, usando nomi o segni distintivi confondibili, imitandone servilmente i prodotti o con altri mezzi, tende a fare in modo che il pubblico faccia confusione tra lui e il concorrente.
- atti denigratori, consistenti nella diffusione di notizie e apprezzamenti sui prodotto e sull’attività del concorrente tali da determinarne il discredito, e atti di concorrenza sleale per sottrazione, consistenti nell’appropriazione di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente.
- atti non conformi alla correttezza professionale, idonei a danneggiare l’altrui azienda.
Tale categoria, di fatto, enuncia il principio cui si ispira l’intera categoria, motivo per cui la giurisprudenza vi ha fatto rientrare, ad esempio, lo storno di dipendenti, il boicottaggio e lo spionaggio industriale.
L’art. 2600 dispone che se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l’autore è tenuto al risarcimento dei danni . In questo caso, tuttavia, l’onere della prova è invertito in quanto accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume . Un ulteriore risarcimento è dato dal fatto che, qualora ricorra colpa o dolo, può essere ordinata la pubblicazione della sentenza su uno o più giornali. Occorre comunque precisare che gli atti di concorrenza sleale sono perseguibili indipendentemente dall’esistenza del danno.
In ogni caso, la sentenza che accerti il compimento di simili atti ne inibisce la continuazione e dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti (art. 2599).
Disciplina dell’antitrust
La disciplina dell’antitrust è diretta ad assicurare che il mercato sia realmente tale, evitando:
- le intese fra le imprese, che abbiano per oggetto o per effetto quello di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza.
Tali intese possono essere sottoposte all’Autorità garante della concorrenza e del mercato in via preventiva, in modo da provocare subito l’eventuale divieto dell’Autorità.
- l’abuso di posizione dominante.
- le concentrazioni, capaci di comportare la costituzione o il rafforzamento di posizioni dominanti suscettibili di prestarsi ad abusi.
Le concentrazioni devono essere comunicate all’Autorità quando il fatturato complessivo sia destinato a raggiungere livelli ragguardevoli (500 miliardi), oppure quando il fatturato della sola impresa eventuale oggetto di acquisizione sia si per sé assai elevato (oltre 50 miliardi).
In Italia questa disciplina è stata introdotta soltanto con la l. n. 287 del 1990, che ha istituito l’appena citata Autorità garante della concorrenza e del mercato, organo collegiale, composto da un presidente e quattro membri, che vigila per evitare ed eventualmente colpire le infrazioni ai divieti posti dalla legge. Per particolari settori le funzioni dell’Autorità sono attribuite alle autorità di vigilanza ai settori stessi preposte (es. radio diffusione, editoria, assicurazioni).
Questa disciplina trova un limite nell’analoga regolamentazione dettata, a livello europeo, con gli artt. 81 e 82 del Trattato istitutivo della CEE. Da essa si ricava che ricadono nella normativa comunitaria e non in quella italiana le intese, le concentrazioni e gli abusi di posizione dominante che investano imprese non soltanto italiane o che producano effetti anche oltre confine.