La crisi del concetto di danno comincia con la distinzione tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale: da un lato la non patrimonialità porta verso ambiti diversi da quelli sui quali si trova attestato il danno patrimoniale come diminuzione della consistenza di un patrimonio secondo la teoria della differenza (Differenztheorie); dall’altro l’identificazione del danno col danno patrimoniale ha fatto sì che per lungo tempo fosse perpetrato il tentativo di ridurre a tale dimensione ciò che da sempre è segnato dalla non patrimonialità, al fine di accreditarne il risarcimento.
Così, Cass. 1130/1985 affermò che il danno alla salute è patrimoniale perché “colpisce un valore essenziale che fa parte integrante del patrimonio del soggetto”, violando il principio di non contraddizione.
Corte cost. 641/1987 ritenne che il danno all’ambiente di cui al 18 l. 349/1986 “è certamente patrimoniale” con argomenti approssimativi come il costo delle funzioni concorrenti alla costituzione e al mantenimento dell’ambiente o la tendenziale scarsità delle risorse ambientali, la quale si tradurrebbe in un valore di scambio del bene “ambiente”: sul filo di argomenti del genere dovremmo dire che una persona vale il costo del suo mantenimento e che l’intelligenza, che pure è rara, ha un valore di scambio.
L’inscindibilità della salute rispetto alla persona ne proclama la non patrimonialità, essendo quest’ultima in maniera pregnante qualificazione di ciò che attiene al soggetto, e la patrimonialità di ciò che attiene all’oggetto ed ai beni.
In via astratta dunque l’affermazione di patrimonialità del danno alla salute avrebbe dovuto passare per l’identificazione di esso col danno come pura perdita patrimoniale, ma questo avrebbe significato la perdita di contatto con la persona, della quale intendeva costituire momento di affermazione sul terreno della tutela risarcitoria.
Il problema fondamentale del danno rimane in ogni modo quello della sua ingiustizia.
Può dirsi universalmente accolta l’idea che l’ingiustizia rimandi ad una situazione soggettiva della quale si tratti di accertare la lesione.
Il dibattito, piuttosto, si era intrecciato tra una dottrina prevalente la quale, attribuendo al sintagma “danno ingiusto” la natura di clausola generale, riteneva che la valutazione di ingiustizia operata dal giudice crei hic et nunc la rilevanza giuridica di un interesse al tempo stesso in cui ne venga accertata la lesione e chi invece, negando che si tratti di clausola generale, ha reputato che l’accertamento della lesione presupponga l’esistenza di una situazione soggettiva, la quale va reperita nella legge.
La giurisprudenza, fino alla sentenza 500/1999, ha sempre praticato il secondo modello.
Ma già da prima di tale sentenza la preesistenza della rilevata situazione soggettiva, invece di fungere da presupposto del giudizio di ingiustizia del danno, ne costituisce in realtà l’esito finale.
Con la mascheratura di un’ingiustizia, adoperata in realtà come clausola generale, sotto le spoglie di un modello di tipicità: il contrario di quanto all’inizio degli anni ‘60 aveva affermato Rodolfo Sacco.