Il guadagno ultimo della l. 349/1986 consiste nell’aver reso giuridicamente rilevante come fonte di responsabilità civile il danno all’ambiente come il di più che sporge rispetto alla perdita riguardante i singoli beni, la quale invece unicamente rilevava secondo la disciplina del Codice.

Con la l. 349/1986 è diventata fonte di responsabilità l’incrinatura della relazione tra i singoli elementi che compongono l’ambiente, si tratti o meno di beni giuridici in senso proprio o, se si vuole, nel senso tradizionale, di oggetto di situazioni giuridiche soggettive.

Il danno all’ambiente va distinto dal danno ai singoli beni che lo compongono: uno stesso danno sarà sanzionato in base alle norme del Codice civile per la parte che risulti essere violazione di situazioni soggettive private, ed in base alla legge speciale per quanto trascende tale lesione.

Quest’impostazione è stata fatta propria da Cass. 9211/1995, la quale ha affermato che “il danno all’ambiente supera e trascende il danno ai singoli beni che ne fanno parte”, onde “bisogna distinguere tra danno ai singoli beni di proprietà pubblica o privata, o a posizioni soggettive individuali, che trovano tutela nelle regole ordinarie, e danno all’ambiente considerato in senso unitario, in cui il profilo sanzionatorio nei confronti del fatto lesivo del bene ambientale comporta un accertamento che non è quello del mero pregiudizio patrimoniale, ma della compromissione dell’ambiente”.

L’ultima sottolineatura collima altresì con la non patrimonialità del danno all’ambiente.

Infatti il danno all’ambiente non è quantificabile (e tale connotazione si annida nella categoria “relazione”, nella quale l’ambiente consiste), onde la valutazione equitativa diventa necessaria; e un danno che sia necessariamente devoluto alla valutazione equitativa del giudice è inevitabilmente non patrimoniale.

Sul punto va anticipato che la natura non patrimoniale riguarda il danno risarcibile ai sensi del comma VI, mentre la condanna al ripristino dello stato dei luoghi, ove possibile, prevista dal comma VIII, si riferisce ad un danno patrimoniale.

Il danno all’ambiente è patrimoniale nei limiti in cui sia possibile il ripristino dello stato dei luoghi; relativamente a ciò per cui non sia possibile il ripristino l’insuscettibilità di valutazione patrimoniale che in pari tempo sembra derivarne rende ragione del trascorrere della misura risarcitoria dal modello previsto al comma VIII a quello di cui al comma VI.

Proprio perché consistente nel provocato squilibrio di una relazione più o meno naturale tra beni, la disciplina del danno ambientale nasconde una seconda novità, non immediatamente evidente: l’applicabilità della disciplina contenuta nel 18 l. 349/1986 anche ai titolari dei singoli beni che risultino essere gli autori della detta incrinatura.

La responsabilità civile in quanto rapporto obbligatorio di risarcimento presuppone l’alterità tra danneggiante e danneggiato negli stessi termini in cui la presuppone in generale l’obbligazione nella distinzione tra debitore e creditore.

Questo rimane vero anche in materia di danno all’ambiente, nel senso che il proprietario del singolo bene non può essere in pari tempo obbligato al risarcimento del danno conseguente alla lesione che esso stesso abbia arrecato al bene.

{Questo punto è messo in rilievo anche da Günter Hager e Marc Leonhard.

È però eccessiva la considerazione che il danno all’ambiente ad opera del proprietario di singoli beni sia oltre le categorie del diritto civile: in realtà il proprietario che danneggia un proprio bene incrinando l’equilibrio ecologico non risponde del danno al proprio bene perché questo sarebbe contraddittorio con la logica della responsabilità civile, ma del danno ad un bene diverso che è l’ambiente, del quale non è esso il titolare}.

Esso risponde non per il deterioramento, l’alterazione, la distruzione del bene, ma per il deterioramento, l’alterazione, la distruzione dell’ambiente quando pure questo si verifichi per il tramite della distruzione di singoli beni anche ad opera di chi ne sia proprietario o titolare di altro diritto che ne attribuisca facoltà di godimento.

Ciò accade perché titolare della relazione “ambiente” che risulta incrinata non è il proprietario od altro soggetto privato ma solo i soggetti pubblici indicati dal 18 l. 349/1986 (non solo lo Stato, ma anche gli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo).

Così quello che inizialmente può apparire un paradosso diventa un corollario.

Il proprietario invero non risponde del danno al bene oggetto del suo diritto, ma dell’infrazione alla relazione di cui il bene stesso, insieme ad altri, fa parte.

Relazione di cui è titolare il soggetto pubblico indicato dalla legge.

In questi termini il danno configurato nel 18 l. 349/1986 costituisce il momento materiale che sottende un danno in senso giuridico, come lesione di una situazione soggettiva avente ad oggetto la relazione tra i beni di un determinato contesto ambientale, della quale vengono fatti titolari lo Stato ed altri soggetti pubblici indicati dalla legge, in ossequio alla loro supremazia territoriale.

Anche il 18 l. 349/1986 finisce col presentare un’ingiustizia, costituita, così come per il 2043, dalla lesione di una situazione soggettiva.

Sennonché mentre nella norma generale del codice l’ingiustizia si coniuga con un danno come perdita patrimoniale, cioè con quella che abbiamo chiamata l’idea realistica di danno, nel 18 l. 349/1986 la lesione del diritto all’ambiente è connotata da un danno in senso materiale o naturalistico.

Entrambe le norme corredano il danno di un’ingiustizia che è qualificazione della violazione di una situazione soggettiva, ma esse adottano un modo diverso di dar forma giuridica alla realtà.

Nella norma del Codice civile per il tramite di tale violazione viene resa rilevante come danno una perdita patrimoniale.

Ed anche quando la norma è stata estesa al danno alla persona, quest’ultimo è rimasto pur sempre una perdita, benché in questo caso non patrimonialmente valutabile in quanto inerente ai valori della persona.

Proprio il danno alla persona ha peraltro innescato una lettura alternativa del 2043 nella quale il danno e l’ingiustizia non sono rimasti elementi separati, ma sono diventati tutt’uno.

Il danno cioè è diventato lesione di una situazione soggettiva e quest’ultima ha coinciso con il danno.

Primo autore di questo modo di intendere il danno ingiusto nel 2043 può essere considerato Stefano Rodotà, il quale nel teorizzare l’ingiustizia del danno come clausola generale aveva finito col dare questa qualificazione al “danno ingiusto” tutt’intero.

Il naturale correlato giurisprudenziale di tale concezione del danno, di un danno in senso giuridico coincidente con la violazione di una situazione soggettiva, è costituito dalla sentenza della Corte costituzionale 184/1986, la quale nell’affermare che la lesione della salute in quanto violazione di un diritto costituzionalmente garantito implica di per sé la risarcibilità e non sopporta limitazioni, formulava l’equazione “lesione del diritto uguale danno risarcibile”.

Però anche nel danno alla persona l’applicazione del 2043 ha continuato ad intendere il danno ingiusto come perdita, costituita dal danno, qualificata dalla lesione di una situazione soggettiva che ne integra l’ingiustizia.

Di questa lettura, che estende al danno alla persona l’originario riferimento del 2043 al danno patrimoniale, è icona Corte cost. 372/1994, la quale, in posizione direttamente contraria alla precedente Corte cost. 184/1986, assume che pure nel danno alla salute la lesione del diritto non è sufficiente ai fini del risarcimento, in quanto la fattispecie di responsabilità necessita del danno come conseguenza negativa sulla cui entità va commisurato il risarcimento.

Vi è però la difficoltà di valutare in termini economici, come esige il risarcimento, valori per definizione non patrimoniali: difficoltà che allora sembrerebbe giustificare in senso contrario l’idea che fa coincidere il danno con la lesione.

Questa idea sembra accolta dalla Cassazione (6507/2001), quando in materia di diritti della persona altri dalla salute afferma che la prova della lesione è in pari tempo prova dell’entità della perdita e che, una volta provata la lesione, il danno è in re ipsa.

Però, nell’identificarsi del danno con la lesione, il risarcimento non trova il proprio oggetto, perché la lesione di un diritto come tale non ha valore economico, questo attestandosi sul piano dell’essere, quello sul piano del dover essere.

D’altra parte anche per l’orientamento che in ossequio al modello classico di responsabilità intende distinguere il danno dalla lesione non c’è niente che abbia le fattezze di una perdita traducibile in un valore risarcitorio.

Se ne può concludere che in materia di danno non patrimoniale si verifica una sorta di indifferenza fra teoria tradizionale del danno e teoria giuridica, la prima fedele alla distinzione tra danno e lesione, la seconda proclive all’identificazione dei due.

{Ancora più recentemente la Cassazione ha riorientato il modello responsabilità nel senso tradizionale della distinzione tra lesione e danno, facendone rilevare la differenza che Corte cost. 394/1992 aveva messo in evidenza rispetto al modello che identifica il danno con la lesione secondo la costruzione alternativa di Corte cost. 184/1986: l’autonomia del danno rispetto alla lesione implica che ai fini del risarcimento non è sufficiente la prova della lesione, occorre la prova del danno (così Cass. 11573/2002).

Nella materia specifica del danno ambientale sembra invece perplessa Cass. 9211/1995, quando afferma che ai fini della responsabilità ex 18 l. 349/1986 non basta la violazione puramente formale della normativa in materia di inquinamento, ma poi aggiunge che la prova del danno ambientale non può non consistere nella prova della compromissione dell’ambiente stesso}.

La ragione di ciò sembra essere proprio la non patrimonialità.

Una volta che nel fuoco della responsabilità civile entrano valori o beni giuridici che non trovano il loro significato nell’apprezzabilità economica, sarebbe contraddittorio che il significato di danno rimanesse quello che da sempre ha caratterizzato la responsabilità civile come istituto di diritto patrimoniale, ultima propaggine della tutela proprietaria.

La persona ed i valori che ruotano intorno ad essa sono apprezzabili in sé, non in quanto riferiti al patrimonio, che è l’altro da sé della persona e dei valori che la circonfondono.

Ecco perché il danno, pur sempre detrimento e mutamento negativo di un valore, non può, con riguardo ad essi, identificarsi con una perdita patrimoniale.

Si tratta solo di stabilire se con esso debba identificarsi tout court la lesione della situazione soggettiva di tutela dell’interesse ovvero debba accertarsi in ogni caso una perdita, sia pure per definizione non consistente in una diminuzione patrimoniale.

In questa seconda prospettiva si incunea tra una definizione realistica, che è fuori quadro in tutto ciò che non è patrimoniale, ed una definizione giuridica, che identifica il danno con la lesione della situazione soggettiva, una concezione naturalistica del danno, atta a renderlo percepibile nonostante che esso non sia apprezzabile in termini economici.

Questo spiega la definizione di danno all’ambiente, ancorata dal 18 l. 349/1986 al danneggiamento, al deterioramento, alla distruzione, come funzioni del mondo fisico, la quale sembra avere lo scopo di agevolare con tale sua percepibilità materiale la misurazione del nocumento.

Una sentenza della Corte di Cassazione penale (5 aprile – 18 giugno 2002) appare del tutto ignara di ciò, affermando essa che «per integrare il fatto illecito, che obbliga al risarcimento del danno, non è necessario che l’ambiente in tutto o in parte venga alterato, deteriorato o distrutto, ma è sufficiente una condotta sia pure soltanto colposa “in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge”».

In questo modo la Corte dimentica che l’illecito civile non ha mai le fattezze di un illecito di pura condotta, ma abbisogna sempre di un danno, per la semplice ragione che la conseguenza dell’illecito civile è il risarcimento, e senza danno non si sa che cosa si possa o si debba risarcire.

Del pari ignara si rivela la direttiva CE 35/2004, ove si evidenzia sin dal titolo – sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale – l’estensione della categoria responsabilità alla fase della prevenzione, laddove nel linguaggio comune la responsabilità si riferisce ad un danno già cagionato del quale si tratta di stabilire chi debba sopportarne il costo.

{Questo non vuol dire che la prevenzione non entri a pieno titolo nel discorso sulla responsabilità: anzi, come ci ha insegnato Guido Calabresi, la regola di responsabilità si formula in relazione ai costi di prevenzione e a chi risulta meglio in grado di affrontarli}.

La direttiva appronta al 2.2 una definizione di danno non discosta da quella che abbiamo ricavata dal 18 l. 349/1986: il danno della dir. CE 35/2004 è un mutamento negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa [sic] naturale.

Il ricorrere della medesima identificazione col deterioramento che abbiamo visto nel 18 l. 349/1986 farebbe pensare ad un danno definito in termini naturalistici.

Ma il 2.1 propone una definizione articolata di danno ambientale, riferita alle specie ed habitat naturali, alle acque, al terreno, la quale mette in evidenza come il danno senza qualificazioni definito al comma II sia il danno da risarcire, cioè il danno come oggetto dell’obbligazione risarcitoria, mentre il danno ambientale di cui al comma I è il danno in senso naturalistico espressivo della lesione; ambedue però concorrenti nel comporre la fattispecie di responsabilità.

Se proprio il legislatore ritiene di doverci munire di definizioni, queste dovrebbero essere meno incerte.

Se però si vuol trarre vantaggio dalla definizione, il significato che essa esprime è la risposta al quesito se nella materia specifica sia sufficiente la lesione od occorra, secondo il modello tradizionale della responsabilità, anche la perdita, la quale a sua volta, solo in quanto provata, consente il giudizio di responsabilità civile come accertamento di un’obbligazione di risarcimento.

Risposta che la direttiva ci dà nel secondo senso.

 

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