Una disciplina espressamente dedicata alle obbligazioni pecuniarie mancava nel codice del 1865, sempre sulla falsariga di quello francese. Ai principali problemi posti dalle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di denaro, rispondevano specifiche disposizioni, come quella che, in tema di prestito di denari, stabiliva che l’obbligazione risultante da un prestito di denaro è sempre della medesima somma numerica espressa nel contratto e che, anche nel caso di aumento o diminuzione della monete prima che scada il termine di pagamento, il debitore deve restituire la somma numerica prestata. Le dottrine riconoscevano in tali regole il principio del valore nominale. Il codice del 1942 eleva invece le obbligazioni pecuniarie a specie di obbligazioni, mettendo assieme disposizioni di varia origine e natura.
Delle norme ivi riunite la principale, quella contenuta all’art. 1227, ribadisce la rilevanza anche civilistica, dell’obbligo del creditore di accettare in pagamento moneta avente corso legale (e per il valore nominale). Il vero è che l’affermazione del valore nominale non dovrebbe essere di pertinenza della legge della moneta ma semmai di quella dell’obbligazione. Le parti possono sottrarsi al principio nominalistico, introducendo nel contratto le clausole di salvaguardia.
Le obbligazioni pecuniarie tornano ad essere richiamate sub specie damni all’art. 1224 nella sede dell’inadempimento, ove figura riprodotta la regola ottocentesca che l’obbligazione tardivamente adempiuta produce automaticamente interessi, senza che il creditore sia tenuto a dare la prova del danno subìto. La connessione tra l’obbligazione pecuniaria e la produzione di interessi trova in ciò consacrazione. Per altro verso sembra che il legislatore del 1942 abbia voluto accorciare la distanza tra l’obbligazione pecuniaria e quella avente per oggetto cose diverse dal denaro, allorquando, sempre sul terreno dell’inadempimento, ha ammesso il creditore a richiedere il risarcimento del maggior danno (1224 comma 2).
È ormai prassi citare, tra le più significative innovazioni apportate in materia di obbligazioni pecuniarie, quella recata all’art. 429 comma 3 c.p.c. quale risulta dal testo modificato con la legge n. 533 del 1973. Si afferma che il giudice, nel pronunciare condanna al pagamento di somme di denaro per i crediti di lavoro, deve determinare, oltre agli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subìto dal lavoratore per la diminuzione del valore del suo credito e ciò con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto.
Vi sono state contrapposte interpretazione del testo dell’art. in esame: l’una diretta a dimostrare la rottura introdotta da tale regola con quella di diritto comune sul pagamento tardivo di debiti di denaro (1224); l’altra tendente invece a sostenere la compatibilità di tale regola con i principi di diritto comune e ciò nel senso di una possibile interpretazione autentica dell’art. 1224 comma 3 c.c.. L’esito di siffatta discussione non può certo diminuire il rilievo di una regola che ha introdotto uno jus singulare a favore dei crediti di retribuzione, il quale si è esteso anche ai crediti previdenziali per effetto di una pronuncia della Corte Costituzionale.