La disciplina delle obbligazioni pecuniarie è contenuta negli art. 1227 e seguenti del codice civile. La stessa disciplina sembra ammettere la distinzione tra debiti pecuniari, che sono oggetto della disposizione contenuta nell’art. 1227, e debiti monetari, che sono oggetto della disposizione contenuta nell’art. 1280. Sotto il vigore del codice abrogato non esisteva una disciplina complessiva delle obbligazioni pecuniarie, essendo dettata questa disciplina in occasione del mutuo ed affermandosi tuttavia degli scrittori che tale disciplina sarebbe stata applicabile anche al di fuori del mutuo.
L’art. 1227 non sancisce espressamente il principio del valore nominale e si limita a sancire il principio del potere liberatorio della moneta avente corso legale nello stato e per il suo valore nominale. Risulta che al legislatore del 1942 è riuscito stabilire un non facile innesto tra un principio di origine extralegislativa, come quello del valore nominale, ed uno di origine legislativa, come quello del potere liberatorio della moneta legale. Completa la disciplina la regola secondo cui se la somma dovuta è determinata in una moneta non avente corso legale nello stato, il debitore ha facoltà di pagare in moneta legale, ragguagliata per valore alla prima (1277).
L’art. 1280 prevede il debito di specie monetaria avente valore intrinseco. Non è un mistero che la formulazione dell’art. 1280 direttamente si colleghi a quella dell’art. 1822 c.c. abrogato che prevedeva il debito di restituzione di monete d’oro o di argento. È noto altresì che l’art. 1822 del codice del 1865 aveva introdotto una deroga al principio nominalistico. È questa derivazione storica tuttavia a giustificare i limiti della formulazione dell’art. 1280. È discutibile il tentativo di ricomprendere nell’art. 1280 anche la fattispecie di debiti aventi ad oggetto pezzi monetari ma non qualificati in ragione del loro contenuto metallico. E si dovrà concludere che l’art. 1280 è più rivolto al passato che al presente, risultando esso collegato ad un tipo di circolazione monetaria in cui poteva avere un carattere alternativo il riferimento della volontà delle parti al valore intrinseco della specie monetaria convenuta e ciò in deroga all’affermazione della bonitas extrinseca di essa.
L’art. 1278 tratta della fattispecie di moneta estera. Il diretto referente storico dell’art. 1278 era l’art. 39 c.comm. che dettava, come vedremo, regola analoga. L’art. 1278 sancisce il principio della facoltà del debitore di liberarsi con il pagamento in moneta nazionale anziché in moneta estera. Trattasi della regola che viene definita del pagamento in moneta locale. Detta regola non autorizza il creditore a domandare esso il pagamento in moneta locale. Se con il contratto si intende privare il debitore di tale privilegio, la formula usata è quella che il pagamento deve avere luogo effettivamente nella moneta estera convenuta. Degna di attenzione è la ricostruzione teorica dalle dottrine, abbastanza concordi nell’escludere che il debito di moneta estera diventi per ciò solo un’obbligazione alternativa.
La regola accolta dall’art. 1278 è che bisogna tenere presente il corso del cambio nel giorno della scadenza e nel luogo stabilito per il pagamento, escludendo dunque che tale corso possa essere quello della costituzione del debito ed addossando in tale modo al creditore il rischio del deprezzamento della moneta tra il giorno della costituzione del debito e quello della scadenza. Il senso dell’indirizzo giurisprudenziale è abbastanza chiaro. Quando il debitore intende avvalersi della facoltà di pagare in moneta nazionale, il privilegio che la legge gli concede non lo sottrae all’obbligo di garantire, sino al momento del pagamento, il ragguaglio tra la moneta nazionale e al moneta estera. La regola, tuttavia, del corso del cambio del giorno di scadenza non è quella adottata dalla maggior parte degli ordinamenti. La regola che fa capo al giorno del pagamento è parsa più convincente, giacché il creditore consegue il pieno valore del suo credito.
Il pagamento dei debiti in moneta estera si complica a seguito della legislazione particolare sui cambi con l’estero e che mira ad evitare l’esodo di capitali dal territorio nazionale e a rifornire al tempo stesso lo stato, attraverso le esportazioni, della valuta estera che gli occorre per il commercio con gli altri stati. Tendenza restrittiva è quella che vede la valuta estera come res extra commercium a seguito appunto delle restrizioni valutarie e dovendosi dunque considerare l’obbligazione come obbligazione avente oggetto impossibile o illecito. Le disposizioni restrittive in materia valutaria non determinano l’invalidità del debito espresso in moneta estera ma incidono sulle modalità del pagamento, nel senso che, al di fuori dei casi tassativamente previsti, questo deve essere regolato in valuta italiana, ragguagliato al cambio di quella estera al momento della scadenza del debito attraverso l’ufficio italiano dei cambi. Trattasi di una tendenza più liberale e più adeguata alle esigenze degli scambi internazionali.