Nella materia dell’adempimento e della responsabilità per inadempimento il problema più discusso ha per oggetto il coordinamento tra la disposizione che impone al debitore di usare la diligenza del buon padre di famigli e l’altra che gli impone di risarcire il danno da inadempimento. Dalla seconda delle due fondamentali disposizioni richiamate si deduce che il debitore è tenuto ad adempiere fino al limite della possibilità: il debitore, che si è diligentemente adoperato fino a quel limite, non è imputabile del mancato adempimento.

La determinazione della nozione di impossibilità deve farsi sulla base di valutazioni non strettamente naturalistiche. Chi afferma che la prestazione si identifica con il risultato dovuto accoglie, in maniera coerente, una nozione assoluta di impossibilità, tale da coincidere tendenzialmente con l’impossibilità materiale di conseguire il risultato con qualsiasi mezzo conosciuto. Diverso è l’orientamento di pensiero di chi reputa che nel contenuto della prestazione rientrino sia il risultato che soddisfa l’interesse del creditore sia i mezzi necessari per attuarlo.

La valutazione dell’interprete non prende come diretto punto di riferimento lo sforzo del debitore ma piuttosto l’adozione delle misure oggettive che sono individuabili con riguardo al contenuto dell’obbligazione e che possono a seconda dei casi incidere o non incidere sulla persona del debitore. L’impossibilità sopravvenuta non imputabile è liberatoria, dunque, quando sia: relativa e oggettiva (oggettivamente valutabile).

L’impossibilità è relativa poiché al debitore sono imposti tutti quei mezzi che rientrano nel contenuto dell’obbligazione. L’impossibilità è oggettiva, se con tale espressione, d’altro canto, si intenda escludere che abbiano rilievo le normali difficoltà in cui il debitore personalmente si trovi e il generico sforzo compiuto. Occorre chiarire che la nozione di impossibilità oggettiva si riferisce al metro di valutazione impiegato ma non presuppone che la causa impeditiva sia necessariamente estranea alla persona del debitore.

Una prestazione impedita in termini relativi e oggettivi è pur sempre una prestazione non eseguibile nel senso precettivo che è proprio del diritto, ossia nel senso della non doverosità dell’impiego di mezzi anormali, che pure consentirebbero di giungere al risultato dedotto in obbligazione. La sfera delle misure strumentali che il debitore è tenuto a prendere non sempre è predeterminabile con pienezza in astratto, ma ha comunque un limite: non può andare oltre quel che deve considerarsi giuridicamente imposto secondo un’interpretazione di buona fede (1366) del titolo e del contenuto della prestazione.

Alcuni problemi ricorrenti (esemplare il caso dello sciopero quale pretesa impossibilità non imputabile di adempiere le obbligazioni assunte dall’imprenditore verso terzi) non ricevono del resto soluzioni rigidamente precostituite, ma sono affidati all’indagine del giudice di merito. Certo è che se si deve evitare l’equivoco di porre sullo stesso piano la valutazione relativa dell’impossibilità e la constatazione di una mera difficoltà ad adempiere.

Qualche perplessità sulla netta discriminazione tra impossibilità e difficoltà parrebbe giustificata, se si proceda alla comparazione con il sistema tedesco, che non si limita a prevedere la liberazione del debitore a causa dell’impossibilità di adempiere, ma espressamente equipara l’impossibilità del debitore all’impossibilità.

Farebbero eccezione soltanto le obbligazioni di genere, poiché si prevede espressamente che l’impotenza del debitore non sia liberatoria, finché permanga la possibilità della prestazione. Con attenta analisi storica è stato dimostrato tuttavia che il legislatore tedesco si riferiva alla perdita della cosa di specie e in particolare all’incertezza assoluta circa l’esistenza attuale della cosa, pur avendo il debitore sperimentato tutte le possibilità di recupero.

 

 

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