Sulla scorta di quanto pure in dottrina era già stato rilevato, che cioè quello disciplinato dal 2059 (Danni non patrimoniali) non fosse tutto il danno non patrimoniale ma solo il danno morale, Corte cost. 184/1986 avallò l’ascrizione dell’altro danno non patrimoniale al 2043 (Risarcimento per fatto illecito).
Questo diede inizialmente spunto all’idea che allora il danno da lesione della salute fosse da ascrivere al danno patrimoniale.
Invece, a leggere il 2043 (Risarcimento per fatto illecito) in sé e per sé, si rende evidente che la norma generale della responsabilità civile può contenere il riferimento alle due specie del danno, patrimoniale e non patrimoniale.
Comparativamente si può richiamare la vicenda francese.
All’origine il 1382 Code Napoléon, del quale si può ritenere ancora ripetizione il 2043 c.c. (a parte l’aggiunta della qualificazione di ingiustizia del danno), si riferiva solo al danno patrimoniale.
Ad un certo momento anche il danno non patrimoniale fu ritenuto risarcibile, ma la norma nel codice francese rimase sempre la stessa, e tale è tuttora.
Il danno alla salute diventa danno in sé e per sé considerato, una lesione il cui risarcimento non abbisogna della prova di un danno che sia conseguito alla lesione.
Secondo la Corte ove anche per i diritti costituzionalmente garantiti ai fini del risarcimento fosse necessaria la prova del danno subìto, il legislatore ordinario rimarrebbe arbitro dell’effettività della predetta dichiarazione costituzionale.
Ma l’argomento si rivela subito inconsistente.
Come ci ricorda anche Madame de Sevigné (1626-1696), chi troppo prova, nulla prova.
I diritti costituzionalmente garantiti, da quello di libertà a quello della difesa in giudizio a quello di associazione, possono sicuramente esser regolati dalla legge ordinaria, anzi non possono non esserlo, e sarebbe strano che ciò non dovesse accadere per la responsabilità civile, che è parte della disciplina ordinaria di tutela di tali diritti.
La verità è che affermare un risarcimento che non abbisogna della prova del danno, e perciò deriva in presa diretta dalla lesione, significa adottare un modello alternativo di responsabilità civile nel quale il danno non è più perdita o sottrazione bensì puramente e semplicemente lesione di un interesse.
La ragione di ciò è che mentre nel danno patrimoniale l’ammontare della perdita è facilmente determinabile in base al criterio della differenza tra il dopo ed il prima del fatto di responsabilità, una tale liquidazione non è possibile quando il valore non sia economicamente valutabile.
La Corte costituzionale critica, parlando del risarcimento, le arbitrarie determinazioni del legislatore ordinario, ma di arbitrario il risarcimento non ha nulla, anzi, risulta essere tutto il contrario, nel momento in cui si attaglia senza restringimenti e senza sovrabbondanze alla perdita che intende riparare.
Piuttosto, esso si struttura su un dato diverso quando, come accade nella lesione di diritti della persona, non procede da una perdita patrimoniale il cui valore ne costituisca l’oggetto.
Rispetto alla posizione assunta dalla Corte costituzionale nella sentenza 184/1986, quella che la stessa Consulta adotta nella sentenza 372/1994 risulta su questo punto contrapposta.
Lì dove la sentenza 184/1986 afferma che il danno alla salute è sempre risarcito, a differenza delle due voci (eventuali) del lucro cessante e del danno morale subiettivo, la sentenza 372/1994, stilata da Luigi Mengoni, afferma che il danno biologico come danno presunto significa che la prova della lesione è, in re ipsa, prova dell’esistenza del danno […], non già che questa prova sia sufficiente ai fini del risarcimento. È sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno.
Sul piano teorico le due sentenze sono in contrasto: la 372/1994 è osservante del modello di responsabilità che distingue il danno dalla lesione, concependo quello come conseguenza di questa.
La sentenza 184/1986 identifica invece il danno con la lesione, con la conseguenza che ai fini del risarcimento risulta rimosso il presupposto di una prova ulteriore del danno.
La sentenza 372/1994 si manifesta coerente con una lettura che del sintagma “danno ingiusto” consideri il sostantivo e l’aggettivo elementi originariamente autonomi, sicché il danno come perdita patrimoniale (al quale unicamente il 2043 si riferisce originariamente) diventa giuridicamente rilevante ai fini della responsabilità in quanto si configuri come conseguenza della lesione della sfera giuridica altrui.
La sentenza 184/1986 si rivela conciliabile col 2043 in quanto consideri il “danno ingiusto” un tutt’uno identificato con l’offesa della sfera giuridica altrui, sicché ai fini del comporsi del fatto di responsabilità è sufficiente l’accertamento della lesione.
Della prima si può dire che fruisce di un parametro sicuro ai fini del risarcimento perché il danno come perdita è la misura di questo.
In favore della seconda sta la considerazione che, mediante l’affermazione in essa contenuta, non solo il danno patrimoniale ma anche quello non patrimoniale diventa senz’altro risarcibile alla stregua di quello patrimoniale e perciò senza limitazioni.
A questa constatazione si potrebbe obiettare che a tale risultato si oppone il 2059 (Danni non patrimoniali), che prevede la risarcibilità del danno non patrimoniale solo nei casi determinati dalla legge.
Ma qui vale la distinzione accolta dalla Corte costituzionale nella sentenza 184/1986 tra danno evento e danno conseguenza: il 2059 si riferisce solo al secondo, e cioè alle conseguenze non patrimoniali della lesione della sfera giuridica altrui, mentre il danno che si identifica con la lesione di una situazione soggettiva non patrimoniale come la salute è danno evento e sfugge al 2059, riducendosi entro il 2043.
Sul piano applicativo le due impostazioni divergenti sembrano però conciliabili.
In pari tempo si può affermare, con la sentenza 184/1986, che la prova della lesione è sufficiente ai fini del risarcimento, e che l’accertamento del danno da risarcire è necessario come pure correttamente afferma la sentenza 372/1994.
Ciò perché la prova del danno è in re ipsa, non solo per ciò che riguarda l’esistenza di esso, ma anche per quanto riguarda la sua entità: il danno biologico non si può provare senza che se ne provi contemporaneamente la consistenza; con il che allora della prova di questa seconda non vi è necessità perché essa fa tutt’uno con la prova concernente l’esistenza del danno.
Se infatti il danno alla salute è costituito da una menomazione psico-fisica, la prova di questa è in pari tempo prova della misura nella quale la salute ha subìto una diminuzione.
Sennonché, pur con questo, non siamo ancora alla quantificazione necessaria ai fini del risarcimento, ma solo al valore-base: tanto che la stessa lesione non rappresenta la stessa perdita per un ragazzo, per un uomo maturo o per un anziano.
Ancora di più, nell’offesa alla quale segua la morte, la lesione della vita come tale obbliga al risarcimento, analogamente alla lesione della salute, ma il risarcimento parte da un valore-base quando la morte segua istantaneamente, e si accresce quanto più il momento della morte, collegata causalmente al fatto imputabile a taluno, segua a distanza di tempo.
La Corte costituzionale sottolineò che il diritto alla vita non è un diritto alla salute rinforzato ma un diritto a sé, riferito ad un bene diverso benché ambedue siano inscindibili dalla persona (184/1986).
Ciononostante la Consulta affermò che la lesione della vita, quando la morte ne segua istantaneamente, non dà àdito a risarcimento perché manca la conseguenza negativa in cui il danno consiste, cadendo nel paradosso per il quale l’offesa meno grave attiverebbe la tutela risarcitoria mentre quella più grave no.
Invece deve ritenersi che il risarcimento sia dovuto per la lesione della vita in sé.
Inoltre, se si dà fino in fondo credito al principio romanistico momentum mortis vitae tribuitur (il momento della morte è l’ultimo della vita), l’offesa alla vita non può non avere giuridica rilevanza, perché l’offesa precede la morte (quando le viene inferto il colpo che l’uccide, la vittima è in vita).
Il danno alla persona ha dunque innescato due visioni della responsabilità civile:
a. in una, tradizionale, il danno si risarcisce in quanto conseguenza accertata della lesione;
b. nell’altra, la lesione delle situazioni soggettive della persona come persona appaiono in sé meritevoli di risarcimento e l’entità di quest’ultimo si commisura direttamente alla gravità della lesione.