La categoria degli interessi compensativi è discussa già sul piano lessicale. La formula è spesso usata quale sinonimo di interesse corrispettivo per descrivere il compenso per il differimento nell’uso del capitale. Si disegnano inoltre alcune figure legali, dettate in materia di vendita, di mutuo e di conto corrente. Il modello è costituito dall’art. 1499 che si riferisce al caso in cui la cosa venduta e fruttifera già sia stata consegnata all’acquirente dal venditore, il quale ancora non abbia ricevuto in cambio il prezzo.
Il venditore si priva dei frutti e degli altri proventi della cosa e non ha contestualmente alcun corrispettivo: deve essere pertanto altrimenti tutelato. Lo svantaggio è compensato dalla previsione della decorrenza di interessi sul prezzo, ancora prima che lo stesso sia esigibile. Diverso è il fondamento degli art. 1815 e 1825. La prima delle due disposizioni nell’affermare finalmente la presunzione di onerosità del mutuo, consacra il primato anche giuridico del credito nell’economia, secondo un indirizzo ormai apertamente riconosciuto.
Al di fuori della tripartizione tradizionale si porrebbero gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento danni da fatto illecito, sui quali le divergenze di opinioni sono nette già con riguardo al lessico prevalentemente utilizzato dai giudici nelle decisioni. Si tratta di un orientamento altrettanto incerto nei suoi fondamenti testuali quanto radicato in una lunghissima tradizione di regole desunte da massime consolidate, sebbene non di rado si sia profilato il rischio di pervenire ad un irragionevole arricchimento del danneggiato per effetto del cumulo tra la rivalutazione della somma da liquidare e gli interessi.
La ricostruzione più lineare è quella che resta aderente ai dati essenziali del sistema; quando il debito deriva da fatto illecito, gli effetti della mora sono automatici; dal giorno della mora sono dovuti gli interessi che ben possono qualificarsi di mora. Le obiezioni possibili sono di due ordini: la prima è testuale, poiché si basa sul mancato richiamo della disposizione dell’art. 1224 nel quadro della norma generale sul risarcimento da fatto illecito; la seconda sottolinea l’inconveniente che può derivare dal sommare vrivalutazioni d’ufficio del debito di valore con il debito degli interessi, di ammontare certo.
La discrezionalità del giudice è incompatibile con liquidazioni irragionevoli, non con la liquidazione della voce interessi, purchè si chiarisca che si tratta di interessi che sempre si riferiscono alla fase del risarcimento del danno consequenziale al tardivo adempimento.
Sembra comunque possibile trarre dagli orientamenti prevalenti in sede giudiziaria le seguenti regole: il debito di risarcimento dei danni da fatto illecito è di valore; sull’ammontare rivalutato si calcolano gli interessi che spesso sono definiti compensativi, sebbene i giudici in prevalenza mostrino di non nutrire dubbi sul fatto che si tratti di interessi moratori; una volta liquidata con pronuncia giudiziale definitiva l’intera somma in tal modo calcolata, il debito assume le caratteristiche di un debito pecuniario di valuta, che produrrà automaticamente ulteriori interessi; il sistema così ricostruito può apparire non privo di un’intera coerenza, ma in termini di stretto calcolo economico potrebbe talvolta giustificare le ferme critiche a cui si è accennato.
L’attribuzione la giudice di un potere di chiusura e di carattere discrezionale rende forse meno equivoco il riferimento al carattere compensativo degli interessi.