La tripartizione dei poteri della Chiesa

Il codice ha introdotto ex novo la distinzione della potestas regiminis in potestà legislativa, esecutiva e giudiziaria (can. 135). Anche se non è stato recepito il principio della separazione dei poteri a distinti apparati e organi di governo, identificano una serie di attività e funzioni omogenee per meglio precisarne il regime di esercizio. Infatti il can. 135 afferma che:

  • la potestà legislativa, destinata alla produzione di norme generali gerarchicamente superiori, è da esercitarsi nel modo stabilito dal diritto, ne gode il legislatore, non può essere validamente delegata (perché spetta solo al Sommo Pontefice e ai Vescovi) se non è disposto esplicitamente altro dal diritto;
  • la potestà giudiziale, destinata alla risoluzione delle controversie mediante l’applicazione del diritto al caso concreto, ne godono i giudici e i collegi giudiziari (potestà vicaria), è da esercitarsi nel modo stabilito dal diritto, non può essere delegata (perché teoricamente è già delegata);
  • la potestà esecutiva ordinaria, destinata al perseguimento dei fini dell’amministrazione ecclesiastica mediante l’applicazione delle leggi, può essere delegata sia per un atto (delega speciale) che per un insieme di casi (delega generale) a meno che non sia disposto espressamente altro dal diritto (can. 137).

 

Collegialità e primato: la dinamica del potere nella Chiesa

Nella costituzione conciliare “Lumen gentium” si dice che Gesù Cristo ha edificato la santa Chiesa e ha mandato gli Apostoli, inoltre volle che i loro successori, i Vescovi, fossero nella sua Chiesa pastori fino alla fine dei secoli. Agli Apostoli prepose il beato Pietro e in lui stabilì il principio dell’unità della fede e della comunione. La costituzione gerarchica della Chiesa è quindi di istituzione divina ed è fondata sul Collegio dei Vescovi e sul primato del Pontefice; ha quindi natura collegiale e insieme primaziale.

Il Collegio dei Vescovi è l’organo che succede all’originario Collegio apostolico; è una successione organica e non personale poiché ogni nuovo Vescovo dal momento della consacrazione entra a far parte del Collegio e non succede singolarmente ad uno dei dodici apostoli. Al contrario per l’ufficio del Pontefice abbiamo una successione personale all’apostolo Pietro, avendo anche come riferimento un passo di Matteo.

Il rapporto tra la collegialità e il primato è l’asse portante del sistema di governo della Chiesa. Mentre prima le principali definizioni dottrinali furono il frutto di importanti concili orientali, nei secoli successivi l’autorità del Pontefice si consolidò. Nei primi secoli del secondo millennio la rivendicazione del primato pontificio vide il suo culmine teorico prima nel “dictatus papae” di Gregorio VII (1073 – 1085) e poi nel successivo pontificato di Innocenzo III fino alla bolla “Unam sanctam” di Bonifacio VIII (1294 – 1303). Questo determinò una grave crisi nel delicato equilibrio costituzionale che comportò il trasferimento per alcuni decenni della sede dei Papi in Francia, ad Avignone.

Il Concilio di Costanza (1414 – 1418) rappresentò la massima affermazione di questa tendenza, anche se i deliberati furono approvati dal Pontefice. La questione del primato pontificio fu anche al centro delle tensioni che furono all’origine dello scisma d’Oriente (1054) e poi della Riforma protestante (1517). La Riforma cattolica portò un processo di centralizzazione del governo della Chiesa universale attorno al Pontefice in difesa all’interno della sua dottrina sacramentale contro le eresie, all’esterno a tutela delle sue prerogative contro le rivendicazioni giurisdizionalistiche degli Stati moderni.

Questo processo ebbe inizio con il Concilio di Trento (1545 – 1563) e il suo culmine con il Concilio Vaticano I (1870), nel quale fu affermato il principio dell’infallibilità del Papa in materia dottrinale quando egli parla ex cathedra. Il Concilio Vaticano II ha precisato la dottrina sui Vescovi e sulla Chiesa particolare, fondata sulla natura collegiale e sacramentale dell’episcopato. La suprema autorità della Chiesa è costituita dal Romano pontefice e dal Collegio dei Vescovi (can. 330). Entrambi godono della potestà suprema, ma il primo può esercitarla liberamente e il Collegio dei Vescovi deve sempre intendersi con il suo capo.

La “nota explicativa praevia” alla Lumen gentium precisa che l’espressione “collegio” non è da intendersi in senso strettamente giuridico, cioè di un gruppo di eguali, ma di un gruppo stabile. Infatti il Collegio necessariamente e sempre cointende il suo Capo, il quale nel Collegio conserva integro il suo ufficio di Vicario di Cristo e Pastore della Chiesa universale. La rivalutazione operata dal Concilio della collegialità episcopale corrisponde alla natura originaria della Chiesa.

Nella Chiesa il potere o potestas sacra proviene sempre dall’alto. Il metodo collegiale ispira il funzionamento e la stessa istituzione di nuove strutture all’interno della Chiesa, non può assimilarsi dunque alla logica democratica degli Stati ma va considerata come espressione della natura della Chiesa come comunione. Questa complessa costruzione costituzionale non ha eguali e ha suscitato una serie di tesi dottrinali che mirano a spiegarne il fondamento teorico. La tesi più convincente è quella dei due soggetti inadeguatamente distinti titolari di potestà suprema sulla Chiesa universale (Betrams, Lo Castro), poiché ha il merito di risolvere la contraddizione della loro esistenza recuperando l’unità del potere nella Chiesa a livello teologico.