L’art. 4, afferma chiaramente che i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto in relazione all’oggetto dedotto in giudizio.

Dalla disposizion si evince che già a livello cognitorio esiste un limite specifico: l’accertamento dell’atto da parte del GIUDICE ORDINARIO è limitato dalla rilevanza che esso riveste per il giudizio in corso. Il GIUDICE ORDINARIO quindi, può conoscere degli effetti dell’atto soltanto in funzione della pronuncia che sarà tenuto ad emettere sugli effetti dell’atto stesso, e non anche con efficacia erga omnes.

Inoltre il sindacato è di sola legittimità e non potrà in nessun caso estendersi al merito dell’atto stesso, all’apprezzamento cioè di quei criteri di opportunità e di convenienza ai quali deve sempre conformarsi l’attività della P.A.; non dimentichiamo poi che il merito è proprio degli atti discrezionali i quali non sono sindacabili da parte del GIUDICE ORDINARIO

La giurisprudenza, in ciò accompagnata anche da scelte del legislatore, è sempre stata incerta per ciò che concerne il tipo di illegittimità che il giudice ordinario può rilevare nel provvedimento amministrativo. Da sempre si affermò con serenità che il GIUDICE ORDINARIO potesse rilevare i vizi attinenti la competenza e la violazione di legge, mentre vi erano dei dubbi in ordine alla rilevabilità del vizio di eccesso di potere.

Questo orientamento non appare comunque condivisibile in quanto i vizi di legittimità fissati dalla legge del 1889 sono tre, senza che tra i medesimi si possa individuare alcuna distinzione. Si è più di recente consolidata l’opinione secondo cui nessuna norma implica il divieto per il GIUDICE ORDINARIO di sindacare l’atto amministrativo anche sotto il profilo dell’ eccesso di potere: si è infatti sottolineato che l’art. 113  Cost. afferma proprio il contrario, sancendo la tutelabilità del privato a fronte di tutti i vizi di legittimità dell’atto amministrativo, nessuno escluso.

L’ambito di operatività dell’istituto della disapplicazione è stato oggetto di un vivacissimo dibattito dottrinale e giurisprudenziale, soprattutto per la difficoltà di definire il rapporto tra l’art. 4 e l’art. 5 LAC. Chiariamo quindi che:

– nell’art. 4 l’atto amministrativo lesivo del diritto è l’oggetto principale del ricorso, per cui il giudice ordinario si trova a conoscere dello stesso principaliter

– nell’art. 5 esso costituisce semplice oggetto di accertamento incidentale in quanto la valutazione della sua legittimità si atteggia a passaggio obbligatorio della decisione de qua, il giudice si trova qui a conoscere in via pregiudiziale.

Il problema che si pose era quello di stabilire se il potere di disapplicazione riguardasse:

– la sola ipotesi di cognizione incidentale, di cui all’art. 5

– anche quella di cognizione diretta di cui all’art. 4.

Secondo una parte della dottrina, la disapplicazione concerne le sole ipotesi in cui il GIUDICE ORDINARIO conosce della legittimità dell’atto in via meramente incidentale in quanto tra le questioni sottoposte alla sua cognizione vi è quella della legittimità dell’atto: solo in questo caso si potrebbe, quindi, parlare di disapplicazione visto che questa non produce alcuna conseguenza sull’atto se non il suo accantonamento.

Secondo altra parte della dottrina (Casetta), invece, la disapplicazione costituisce uno strumento di portata generale, operante tanto in riferimento agli atti dei quali il giudice conosca ai sensi dell’art. 4 (e dunque principaliter), quanto in riferimento a quelli dei quali il giudice si trovi a conoscere incidenter ai fini della pronuncia su un oggetto diverso.

Parte della dottrina della giurisprudenza ritiene poi che il potere di disapplicazione sia esercitabile anche dal giudice penale. Il rischio dell’orientamento in esame è che si consegua il risultato di equiparare una condotta posta in essere da un privato e non espressamente considerata rilevante dalla legge penale, ad es. la costruzione di un fabbricato sulla base di un atto, al comportamento tipizzato dalla legge penale, come ad es. la costruzione in assenza di concessione.

Il potere di disapplicazione, di recente, è stato riconosciuto in capo al giudice amministrativo.

Infine, ai sensi dell’ art. 4 co. 2 LAC, le autorità amministrative hanno l’obbligo di conformarsi al giudicato dei tribunali in quanto riguarda il caso deciso. Il privato che ha ottenuto una pronuncia favorevole può rivolgersi all’amministrazione al fine di ottenere la rimozione dell’atto.

Parte della dottrina ritiene però che l’amministrazione non sia vincolata in modo assoluto dalla pronuncia del giudice ordinario.

Con riferimento all’ipotesi in cui l’amministrazione non osservi l’obbligo in esame, la legge istitutiva della IV sez. Consiglio di Stato ha introdotto nel 1889 il rimedio del ricorso di ottemperanza che consente alla parte che abbia ottenuto una pronuncia favorevole del giudice ordinario passata in giudicato di rivolgersi al giudice amministrativo nel caso in cui l’amministrazione non si conformi al giudicato.

Il rimedio ha in realtà ha avuto finora scarsa applicazione in relazione ai casi di sentenza dichiarativa del giudice ordinario alla quale l’amministrazione non si sia conformata, mentre è abbastanza frequente nelle ipotesi di sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro.

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