Il ricorrente deve poi preoccuparsi di verificare l’esistenza di altri importanti condizioni. Esaurito l’accertamento dei presupposti processuali, il giudice dovrà difatti verificare la sussistenza dei requisiti che sono condizioni dell’azione in senso proprio, legate alla situazione sostanziale.
Si tratta delle condizioni la cui mancanza impedisce al giudice di esaminare la fondatezza della domanda proposta dalla parte: il disconoscimento dell’esistenza delle condizioni dell’azione dà luogo a una pronuncia di inammissibilità, che può essere rilasciata anche d’ufficio.
Tale pronuncia preclude ulteriori possibilità di ottenere una decisione sul merito della domanda, almeno finché l’esistenza delle condizioni non si verifica. Le condizioni dell’azione sono di carattere:
- soggettivo: legittimazione ad agire e a contraddire, cd legitimatio ad causam, e l’interesse a ricorrere
- oggettivo: l’esistenza di un provvedimento impugnabile e la circostanza che il provvedimento richiesto al giudice rientri nell’ambito della sua giurisdizione
La legittimazione ad agire sul piano processuale, cd legitimatio ad causam, spetta al titolare della situazione giuridica sostanziale che è stata ingiustamente lesa dal provvedimento amministrativo e che viene dedotta in giudizio: interesse legittimo o, nei casi di giurisdizione esclusiva, diritto soggettivo.
La legittimazione ad agire e a contraddire si lega al concetto di parte in senso sostanziale, cioè al fatto che chi agisce sia una “giusta” parte, perché titolare della relazione sostanziale. Spesso si afferma che la legittimazione ad agire.
Posto che il giudizio amministrativo è un processo di parti, per poterlo attivare, nonché per poter contraddire, occorre quindi essere titolari di una posizione sostanziale legittimante: occorre, cioè, essere titolari di legittimazione.
Come anticipato, la legittimazione va individuata nella titolarità di una posizione soggettiva esterna rispetto al giudizio, che, è qualificabile come diritto soggettivo o come interesse legittimo. Si deve trattare sempre di una posizione qualificata e differenziata, ossia di una posizione che l’ordinamento contempla in capo ad un destinatario determinato.
Questo significa che, nel processo amministrativo, di norma, non è possibile far valere interessi di fatto. L’unica garanzia riconosciuta a tutela di tali interessi sta nell’obbligo di buona amministrazione che grava sulla P.A. I privati, pertanto, possono, con reclami, far rilevare queste mancanze alla P.A. ma si tratterà solo di mere denunce, di cui la P.A. può non tener conto.
Secondo parte della dottrina (Gallo), non sarebbero riconducibili alla titolarità di interessi di fatto neanche quelle rare ipotesi nelle quali è ammesso, si pensi al giudizio elettorale, l’esercizio dell’azione popolare. Ciò si verifica, infatti, in quanto è lo stesso legislatore che, con una propria autonoma valutazione, attribuisce la legittimazione a ricorrere a tutti i cittadini.
In questa ipotesi, posto che l’amministrazione stessa deve essere necessariamente presente in giudizio è da escludere che l’attore popolare agisca come sostituto processuale di essa. Il Sandulli, a riguardo, ritiene che l’azione popolare sia un istituto di democrazia diretta e che l’attore popolare agisca in difesa di un interesse proprio, per quanto collettivo, anziché individuale. Si tratterebbe, dunque, di un interesse del singolo nella qualità di membro della collettività.
Considerando, quindi, che ai fini della legittimazione ciò che rileva è la titolarità di una posizione sostanziale, l’accesso al giudice è riconosciuto, dalla giurisprudenza, in determinate ipotesi, anche ai portatori di interessi collettivi e di interessi diffusi.
Come visto nella parte sostanziale, i titolari di interessi collettivi, costituiti cioè in enti, non hanno incontrato grossi problemi perché gli interessi collettivi sono interessi facenti capo ad una serie indeterminata ma determinabile di soggetti, i c.d. interessi di categoria, onde il carattere della personalità e della differenziazione necessario per poterli qualificare come legittimi e per aprire le porte alla tutela dinanzi al G.A. può facilmente rinvenirsi sostituendo al soggetto atomisticamente inteso, il gruppo al quale gli interessi sono comunque riferibili.
I titolari di interessi diffusi, invece, hanno incontrato numerose difficoltà, discendenti dal fatto che nel nostro ordinamento, le posizioni soggettive legittimanti sono normalmente individuali, cioè attribuite ai singoli.
Gli interessi diffusi, ricordiamo, fanno capo ad una serie indeterminata ma anche indeterminabile di soggetti cosicché il carattere della personalità e della differenziazione viene meno, tant’è che in origine vennero considerati come interessi giuridicamente irrilevanti., in quanto privi di un titolare, posto che paradossalmente i titolari erano tanti e numerosi.
Il modello delle situazioni giuridiche soggettive ha alla sua base il diritto soggettivo da un lato e l’interesse legittimo dall’altro tutti gli interessi che non sono qualificabili come tali divengono automaticamente irrilevanti. Si diceva pertanto: gli interessi diffusi non solo non sono qualificati ma altresì non sono differenziati perché non attribuibili ad un singolo individuo.
Noi dobbiamo in primo luogo verificare se effettivamente un dato interesse è da considerarsi di fatto ovvero è in qualche modo considerato dall’ordinamento. Per valutare se un interesse è di fatto ovvero è tutelato, si deve far riferimento al dato normativo. La Costituzione in effetti mostra di tutelare molti interessi che non hanno la caratteristica originaria del diritto soggettivo; si tratta di interessi che hanno una struttura diversa e molti di questi sono quelli che noi chiamiamo “interessi diffusi” come, ad es. la tutela della salute nell’aspetto non individuale. Si tratta di interessi attinenti allo sviluppo della persona e alla salvaguardia dei valori fondamentali di civiltà, non collegabili allo schema tipico del diritto soggettivo, ma, comunque, fondamentali del nostro ordinamento, in quanto Costituzionalmente protetti. Non potendo certamente negare la loro rilevanza a livello giuridico, il problema del legislatore è stato quello di individuare nuove forme di tutela di questi interessi.
La prima norma a riguardo è stata la legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente, ossia la l. 349/1986. L’art. 6 u.c., infatti, impone un particolare procedimento, ossia la “Procedura di impatto ambientale” che consiste in una attività di trasformazione del territorio subordinatamente alla presentazione, all’autorità competente, di un progetto, nel quale siano indicati quali incidenze l’opera che si intende realizzare potrà avere nell’ambiente. La norma ha riconosciuto in questa procedura l’esistenza di un diritto di partecipazione di qualunque cittadino, il quale potrà formulare le proprie osservazioni, di cui all’art. 6 co. 1, e l’amministrazione interessata dovrà tenerne conto. Questa è un’ulteriore conferma che gli interessi in esame non riguardano singoli soggetti, ma sono interessi diffusi, interessi cioè di tutti i cittadini.
La vera rivoluzione si ha con la l. 241/1990 il cui art 9 prevede che “qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento”. L’innovazione è radicale: si parla in modo espresso per la prima volta di “interessi diffusi” e si individua altresì chi è legittimato ad intervenire nel procedimento a tutela di tali interessi. Si determina in tal modo definitivamente il passaggio di tali intessi al sfera del giuridicamente rilevante.
Ci si è infine chiesti se la legittimazione a partecipare al procedimento amministrativo comporta anche la legittimazione ad agire in giudizio a tutela dell’interesse diffuso. Sul punto, questo dottrina e giurisprudenza si sono divise: molti hanno affermato che l’art. 9 riconosca solo la possibilità per le associazioni di partecipare al procedimento amministrativo e non che siano altresì legittimate ad agire in giudizio
Questa argomentazione in realtà non è condivisibile, perché la partecipazione al procedimento non è altro che una forma di tutela anticipata rispetto all’azione giurisdizionale. La legittimazione ad agire in giudizio è pertanto consequenziale perché il legislatore sta, in questa norma, non solo riconoscendo la rilevanza giuridica dell’interesse diffuso ma altresì la possibilità per associazioni e comitati di partecipare al procedimento.
Questo significa necessariamente riconoscimento anche della possibilità di agire in giudizio laddove il provvedimento finale risulti lesivo dell’interesse diffuso perché dove vi è tutela sostanziale vi è anche una tutela processuale.
Segue poi la legittimazione ex lege, di cui un importante caso è previsto dall’art. 21 bis l. 287/190, ai sensi del quale l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) è legittimata ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato.
È prevista, in tali ipotesi, una previa fase di sollecitazione intervenire e che può sfociare nell’impugnazione: se ritiene che una PA abbia emanato una violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, l’autorità garante emette, entro 60 g, un parere motivato nel quale indica i profili delle violazioni riscontrate. Se la PA, in tal modo vincolata ad aprire un procedimento, non si conforma nei 60 g successivi la comunicazione del parere, l’autorità può presentare, tramite l’avvocatura dello Stato, il ricorso entro i successivi 30 g.
La norma da un lato rafforza la previsione del valore della concorrenza e il ruolo dell’AGCM, dall’altro delinea il profilo di un giudizio a tutela di un interesse pubblico: si tratta, quindi, di un frammento di giurisdizione di tipo oggettivo.
Di rilievo è il tema delle procedure a evidenza pubblica: il bando di gara deve essere autonomamente impugnato allorché contenga disposizioni immediatamente lesive degli interessi degli aspiranti ovvero si intenda contestare la scelta della PA di indire una procedura. Si tratta di un’eccezione, perché la regola è quella secondo cui la legittimazione si concretizza solo se il ricorrente ha partecipato alla procedura, differenziando la propria posizione che diviene meritevole di tutela.
La legittimazione implica che il soggetto abbia legittimamente preso parte alla gara: in caso contrario questi si trova nella situazione dell’impresa esclusa o non partecipante, ed è dunque privo di una situazione giuridica differenziata difettando di legittimazione.
In alcune situazioni, la legittimazione ad agire spetta a una cerchia molto ampia di soggetti: si tratta delle cd azioni popolari.
Ai sensi dell’art. 9 TU enti locali, ad es., ogni elettore può far valere le azioni e i ricorsi che spettano al Comune: in tale ipotesi chi ricorre non è titolare di un interesse legittimo ma agisce in rappresentanza della comunità. Si tratta di una azione di tipo suppletivo, in cui l’amministrazione non diventa soggetto resistente.
In questi casi si verifica la sostituzione processuale, in quanto chi agisce in nome proprio ma valere una situazione soggettiva di altri. Se l’ente sostituito, che mantiene la titolarità dell’azione, decide di costituirsi in giudizio in adesione alle domande proposte dall’attore, dovrà notificare un atto di assunzione in proprio del ricorso originario.
Interesse al ricorso
Oltre alla legittimazione vi è un ulteriore requisito per l’accesso al giudice: l’interesse a ricorrere, che ha natura processuale e sussiste ogni qualvolta il soggetto che agisce in giudizio è in grado di ottenere un effettivo concreto beneficio dall’accoglimento della sua domanda.
L’interesse al ricorso consiste quindi in un vantaggio pratico e concreto, diverso dall’idoneità dell’azione a far conseguire un certo obiettivo, che può derivare dall’accoglimento del ricorso. Può trattarsi di un vantaggio anche solo di carattere morale, allorché la situazione di fatto nella quale il cittadino si trova sia tale da non consentire in nessun modo un vantaggio concreto ma possa comunque garantire un ristoro del pregiudizio che è stato subito.
Si tratta sicuramente di ipotesi rare da rintracciare nella pratica, nelle quali il G.A. ha sostanzialmente dato ingresso all’impugnazione per evitare che il trascorrere del tempo privi il cittadino di un successo giurisdizionale al quale avrebbe avuto titolo se la controversia fosse stata rapidamente decisa. Tale interesse morale sarebbe addirittura suscettibile di essere trasmesso agli eredi che vogliano tutelare memoria del de cuius.
Secondo la giurisprudenza esso può consistere anche in una utilità strumentale cioè ulteriore rispetto alla mera eliminazione dell’atto: si pensi all’interesse a impugnare l’aggiudicazione di una gara avvenuta a favore dell’unica altra impresa concorrente, sulla scorta della prospettazione che essa avrebbe dovuto essere esclusa; in caso di esito positivo del giudizio, la gara andrebbe ripetuta e vi sarebbe per il ricorrente la chance di una possibile aggiudicazione.
Occorre pertanto che la sentenza del giudice sia in grado di attribuire a questo soggetto un bene della vita o comunque un vantaggio o quantomeno eliminargli un pregiudizio. Non potrebbe, ad es., proporre ricorso un partecipante ad un concorso pubblico di assunzione collocato comunque tra i vincitori al solo fine di ottenere una migliore valutazione. In questo caso, infatti, una migliore valutazione non gli arrecherebbe alcun concreto beneficio.
A riguardo, l’art. 35 cpa prevede che il giudice dichiari, anche d’ufficio, il ricorso:
- inammissibile: quando è carente l’interesse
- Improcedibile: quando nel corso del giudizio sopravviene il difetto di interesse delle parti alla decisione.
L’interesse a ricorrere deve sussistere per tutta la durata del giudizio, fino alla pronuncia della sentenza. Se nel frattempo viene meno, il ricorso diventerà inammissibile, per carenza. Ad es., deve ritenersi inammissibile per carenza sopravvenuta di interesse il ricorso di un cittadino che contesti il provvedimento del Sindaco che ordinava la demolizione dei balconi di un edificio, poi non eseguita per l’intervento dell’ordinanza cautelare a causa del crollo dell’edificio per cause naturali.
La giurisprudenza precisa anche l’esecuzione della sentenza va effettuata con riferimento alla situazione normativa esistente nel momento in cui viene pubblicata la sentenza che lo accoglie. Ciò comporta che la valutazione dell’interesse a ricorrere può essere riferita anche a delle modificazioni nel frattempo intervenute della disciplina positiva.
Sarebbe possibile, quindi, che durante lo svolgimento del giudizio la disciplina legislativa o regolamentare che regge l’attività sia mutata, con la conseguenza che un provvedimento favorevole all’interessato, legittimamente rilasciabile alla data di proposizione del ricorso, non sia più emanabile nel momento in cui la sentenza è pubblicata. In questo caso, quindi, si registrerebbe una carenza sopravvenuta di interesse.
In realtà, questo orientamento, deve oggi essere sottoposto a revisione in relazione alla possibilità di ottenere un risarcimento anche per la lesione di un interesse legittimo. In questo caso, infatti, il ricorrente avrebbe comunque interesse all’annullamento del provvedimento impugnato per poter dimostrare l’ingiustizia del medesimo ed agire per ottenere il risarcimento del danno.
Le considerazioni in esame inducono ad evidenziare ulteriori ragioni di perplessità in ordine alla soluzione, prospettata dalla l. 15/2005 che all’art. 21 octies, co. 2, consente al G.A. di non annullare il provvedimento, sia pure illegittimo, nell’ipotesi in cui risulti che il medesimo non avrebbe potuto essere, quanto al contenuto, diverso da quello in concreto adottato. Tale circostanza priva il ricorrente dell’interesse a coltivare un giudizio, da cui non potrebbe ricavare alcuna concreta utilità.
Se si sostiene che la norma fa sì che un vizio, che resta di legittimità, non comporti l’annullabilità dell’atto sulla base di valutazioni attinenti al contenuto del provvedimento, deve anche concludersi che, in realtà, l’interesse all’annullamento – nel senso di utilità giuridica derivante dal processo – permane anche dopo la constatazione che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato: ciò perché quel provvedimento continuerebbe ad essere viziato.
Si ritiene che ciò che determina il rigetto del ricorso, nell’ipotesi in esame, è l’operare di una sorta di “causa di esclusione dell’illegittimità” del provvedimento che opera ab initio: il GA si limita ad accertare che l’atto impugnato è legittimo e quindi “non annullabile”, stante l’operatività di una “fattispecie esimente”, quella, appunto, ex art. 21 octies.
Si ricordi però che sarà rimessa al giudicante la valutazione dell’operatività o meno della stessa: si evita così di affermare una carenza di interesse ad agire a fronte di un provvedimento che, anche dopo una pronunzia giurisdizionale di rigetto del ricorso, resta affetto da illegittimità.
Se così non fosse, le soluzioni prospettate dalla tutela risarcitoria sarebbero contraddittorie: se infatti il provvedimento non annullato, ai sensi dell’art. 21 octies, restasse comunque illegittimo, potrebbe sostenersi, aderendo a quelle tesi che non ritengono necessario il previo annullamento dell’atto illegittimo per ottenere il risarcimento dei danni, che la perdurante illegittimità del provvedimento non annullato in sede giurisdizionale, possa comunque legittimare domande risarcitorie.
In merito, l’art. 34 del Codice prevede che, se nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se vi è l’interesse ai fini risarcitori.
La previsione è di carattere generale che corrisponde a quella prospettazione di cui si è detto. La medesima potrebbe essere fatta convivere anche con il disposto dell’art. 21-octies, non ricompreso fra le norme abrogate dal Codice, nel senso che: pur quando riconosca di non dover annullare il provvedimento, il giudice debba accertare l’illegittimità originaria dell’atto se vi è un interesse a fini risarcitori.
Sempre l’art. 34 cpa dispone che qualora nel corso del procedimento la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta, il giudice, viceversa, dichiara la cessazione della materia del contendere, eliminando la ragione del giudizio.
Si tratta pertanto di una figura diametralmente opposta rispetto a quella dell’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse, si pensi alla sopravvenienza di un atto che renderebbe inutile per il ricorrente l’annullamento del precedente atto impugnato in quanto non ne trarrebbe alcun vantaggio, che incide su una condizione dell’azione.
L’art. 84 cpa, inoltre, prevede espressamente che la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione possa essere desunta dal giudice da fatti sopravvenuti o dal comportamento delle parti.
In conclusione, quindi, il ricorrente per poter proporre ricorso dinanzi al G.A. oltre ad esservi legittimato dalla titolarità di un interesse protetto dall’ordinamento, ossia di un interesse sostanziale che dà luogo alla legittimazione ad ricorrere, che affermi leso, deve altresì avere un interesse a ricorrere.
Quest’ultimo, al pari dell’interesse protetto, nonché della lesione, deve presentare determinati caratteri e, in particolare, deve essere:
- Personale: non è ammissibile il ricorso proposto per il conseguimento di un vantaggio di un terzo.
- Diretto: non può impugnarsi un provvedimento soltanto perché la decisione del giudice, direttamente riferibile a una situazione altrui, potrà avere riflessi indiretti sulla sfera giuridica del ricorrente. Si pensi, ad es., alla mancata promozione del proprio superiore, che solo indirettamente lede l’interesse del subordinato ad essere promosso al posto lasciato libero.
- Attuale: la lesione arrecata dal provvedimento, e l’interesse a impugnarlo, deve sussistere o permanere al momento della proposizione del ricorso e non essere futura o eventuale.
Non sono impugnabili per carenza attuale di interesse gli atti:
- di mera esecuzione o confermativi di precedenti provvedimenti: la loro eliminazione non inciderebbe sulla lesione arrecata dall’atto eseguito confermato
- endoprocedimentali non aventi effetti esterni
– i regolamenti, gli atti generali e le circolari se non contengono disposizioni idonee a ledere direttamente la posizione dei singoli.
Parte della giurisprudenza ammette la facoltatività dell’impugnazione della circolare da parte del destinatario di provvedimento applicativo: essa può infatti essere impugnata soltanto per sostenere che gli atti applicativi sono illegittimi perché hanno applicato una circolare illegittima.
L’interesse al ricorso e la legittimazione ad agire devono esistere al momento della presentazione della domanda e permanere fino a quello della decisione.
Affinché il giudice possa procedere all’esame del merito, è necessario che sussistano altre condizioni, ossia il rispetto dei termini per la proposizione del ricorso, e si attesti la carenza di altre, come l’acquiescenza o la rinuncia al diritto sostanziale.
La decadenza per decorso del termine cagiona l’irricevibilità del ricorso, di cui all’art. 35 cpa: “il giudice, anche d’ufficio, dichiara il ricorso irricevibile se accerta la tardività della notificazione o del deposito.
Comportano invece una pronuncia di inammissibilità:
- La rinuncia: atto volontario e successivo alla lesione della situazione giuridica protetta, con cui il soggetto titolare del potere di azione manifesta la volontà contraria alla proposizione del ricorso, ovvero, successivamente alla impugnativa, dichiara di desistere.
La rinuncia impedisce la proposizione di una ulteriore azione, ipotizzabile se i termini di decadenza non sono ancora aspirati.
- L’acquiescenza: è l’accettazione spontanea e volontaria, da parte di chi potrebbe impugnare l’atto, delle sue conseguenze e, quindi, della situazione da esso determinata.
Il comportamento acquiescente deve desumersi da fatti univoci, chiari e concordanti: esso presuppone la conoscenza del provvedimento e la sua avvenuta emanazione. Non produce effetti erga omnes, in quanto osta alla proposizione del ricorso amministrativo o giurisdizionale solo da parte del soggetto che l’ha prestata.
Deve essere eccepita dalla parte interessata e non può essere rilevata d’ufficio dal giudice: è quindi oggetto di una eccezione in senso tecnico, ossia una controaffermazione proveniente da una parte rispetto a quanto argomentato da una controparte e che altri non può effettuare.
- La decadenza: opera per decorso dei termini previsti per proporre l’impugnazione ed è rilevabile d’ufficio, ai sensi dell’ 35 cpa.
Anche nel silenzio del codice, in ossequio al principio di alternatività, è da ritenere non ammesso il ricorso in sede giurisdizionale quando contro il provvedimento è stato proposto ricorso straordinario al presidente della Repubblica da parte dello stesso soggetto.