Nel processo civile vale con carattere di generalità il doppio grado di giurisdizione: nei confronti delle sentenze dei Tar, infatti, la parte soccombente può proporre l’appello al Consiglio di Stato (art. 100). Tale mezzo di impugnazione presenta i caratteri del gravame, dal momento che si sostituisce alla sentenza del Tar (carattere rinnovatorio), salvi i casi di rimessione degli atti al giudice di primo grado, tassativamente previsti dall’art. 105 co. 1 (es. mancanza del contraddittorio).
Sono legittimate a proporre appello le parti necessarie nel giudizio di primo grado (art. 102 co. 1). Tale disposizione appare coerente sia con i principi del doppio grado di giurisdizione sia con la considerazione che la proposizione dell’appello è espressione di un potere di disposizione della controversia riservato alle parti necessarie. La legittimazione a proporre l’appello è riconosciuta dal codice anche all’interventore ad opponendum nel giudizio di primo grado, quando esso risulti titolare di una posizione giuridica autonoma rispetto alle altre parti (co. 2).
La presentazione dell’appello presuppone che il soggetto legittimato abbia interesse ad appellare, ossia interesse ad impugnare una sentenza che produce effetti sfavorevoli per la parte. Tale concetto si riconnette alla nozione di soccombenza, avendo interesse ad impugnare la sentenza di primo grado chi sia risultato soccombente in quel grado di giudizio.
Nei confronti delle sentenze non definitive la parte può proporre l’appello nel rispetto dei termini già segnalati, ma può anche riservarsi di impugnare la sentenza non definitiva unitamente a quella definitiva. Il codice riconosce l’istituto della riserva di appello anche nel processo amministrativo (art. 103). Tale riserva è proposta con un atto che deve essere notificato alle altre parti entro il termine fissato per l’appello e deve essere depositato presso il Tar nei successivi trenta giorni.
Il ricorso in appello deve avere come contenuto tassativo (art. 101 co. 1):
- l’indicazione del ricorrente, del difensore e delle parti nei cui confronti è proposto appello;
- l’indicazione della sentenza di primo grado;
- l’esposizione sommaria dei fatti;
- le specifiche cesure contro i capi della sentenza gravata: l’appello, oltre ad identificare l’oggetto della domanda, deve anche enunciare la critica ai capi di sentenza appellati. L’appellante non può limitarsi a riproporre le sue ragioni, ma deve formulare una critica specifica alla sentenza di primo grado;
- le conclusioni;
- la sottoscrizione del ricorrente, se sta in giudizio personalmente, oppure del difensore, con indicazione in questo caso della procura speciale rilasciata.
L’appello si caratterizza tradizionalmente per essere diretto ad ottenere dal giudice di secondo grado il riesame della vertenza decisa dal giudice di primo grado (gravame). Il giudice di appello, quindi, deve poter conoscere e decidere la vertenza con la stessa pienezza del giudice di primo grado. A questo proposito si parla di effetto devolutivo dell’appello, termine questo con il quale si individua la riemersione automatica, nel giudizio di appello, delle questioni sollevate nel giudizio di primo grado. Tale effetto devolutivo risulta automatico, dal momento che l’esame in appello delle questioni proposte nel giudizio di primo grado non richiedere alcuna iniziativa di parte.
Per valutare la rilevanza dell’effetto devolutivo è opportuno ricordare che questo può prodursi solo nei limiti dell’impugnazione proposta, potendo riguardare solo questioni risolte nei capi di sentenza che siano stati impugnati (tantum devolutum quantum appellatum). L’ampiezza dell’effetto devolutivo, quindi, è condizionata dalla nozione di capo di sentenza. Sulla base della lettura accolta dalla giurisprudenza, l’effetto devolutivo dell’appello avrebbe una portata limitata, perché consentirebbe al giudice di secondo grado di conoscere di ufficio i meri argomenti esposti dalle parti, di valutare gli elementi di prova inerenti a tali questioni acquisiti nel giudizio di primo grado e di conoscere le istanze istruttorie precedentemente proposte dalle parti. Riguardo alle questioni sollevate dalle parti, al contrario, sarebbe difficilmente prospettabile un effetto devolutivo. Rispetto ad esse le parti avrebbero l’onere di proporre appello incidentale, perché solo con questo esse potrebbero estendere la cognizione del giudice anche ai capi della sentenza diversi da quelli censurati nell’appello principale. L’effetto devolutivo e l’onere di appello incidentale, in sostanza, sono in una relazione di alternatività: non risulta configurabile un onere di impugnazione nei casi in cui opera l’effetto devolutivo, dal momento che in questo caso il giudice ha di per sé la capacità di prendere in considerazione le ragioni e gli elementi non accolti dal giudice di primo grado. Ai sensi dell’art. 101 co. 2, si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano state espressamente riproposte nell’atto di appello o, per le parti diverse dall’appellante, con memoria depositata entro il termine per la costituzione in giudizio.
Con riferimento alla disciplina dei nova, il codice conferma che con l’appello al Consiglio di Stato non è ammessa la presentazione di nuove domande contro il provvedimento impugnato in primo grado o di nuove eccezioni non rilevabili di ufficio (art. 104 co. 1). Allo stesso modo non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa oppure che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile (co. 2). Sono invece ammessi i motivi aggiunti che concernono vizi che emergono da documenti conosciuti per la prima volta in quel grado di giudizio (co. 3). Come anche nel processo civile, peraltro, nell’appello possono essere richiesti gli interessi e gli accessori maturati dopo la sentenza di primo grado, nonché il risarcimento dei danni subiti dopo tale sentenza (co. 1).