Dunque sebbene non sia corretto negare l’esistenza di un potere discrezionale della pubblica amministrazione, occorre tuttavia conformarlo e disciplinarlo per ricondurlo a fattori di incertezza e di prevedibilità. Questo compito fu svolto dalla giurisprudenza amministrativa grazie alla costruzione della teoria dei limiti imposti dai principi di proporzionalità e ragionevolezza, e dei vizi di legittimità dei provvedimenti. Infatti, un ulteriore problema era quello di individuare delle opportune forme di controllo atte a circoscrivere il potere discrezionale delle pubbliche amministrazioni: da qui la teoria dei vizi di legittimità e dell’eccesso di potere. Mentre per la dottrina e la giurisprudenza inglesi l’atto amministrativo “irragionevole” era ricondotto ad una sua “non conformità ad un modello standard “, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte effettuate dai funzionari pubblici; la regola romagnosiana del “mezzo minimo” si pone invece come clausola generale che richiama il principio di proporzionalità, per cui la discrezionalità amministrativa è l’attività valutativa dei pubblici poteri di contemperamento fra la realizzazione degli  interessi pubblici e il sacrificio degli interessi privati. Pertanto la proporzionalità si configura come limite all’attività decisionale dell’amministrazione anche oltre il fattore formale della conformità del potere amministrativo al dettato della legge. In altre parole, oltre che rispettare il primato della legge, il potere delle amministrazioni pubbliche, anche se discrezionale, deve essere comunque finalizzato al conseguimento degli obiettivi suoi propri col minor sacrificio possibile delle situazioni di vantaggio riconosciute ai cittadini.

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