Prima dell’ unità d’ Italia, la maggior parte degli Stati della penisola (in primis, il Regno di Sardegna) aveva strutturato il sistema della giustizia amministrativa sul modello adottato in Francia: in virtù di tale modello, le liti tra privati e P.A. erano affidate alla cognizione di tribunali speciali composti da funzionari amministrativi (sistema del contenzioso amministrativo); in altri Stati, invece, esistevano solo rimedi di carattere amministrativo davanti alla stessa autorità.
Pertanto, dopo l’ unificazione, il nuovo Stato si trovò a dover risolvere il problema della giustizia amministrativa (diversamente configurato tra i diversi Stati preunitari); in questa prospettiva, il Parlamento italiano, chiamato a scegliere tra il mantenimento del sistema del contenzioso amministrativo e la devoluzione al giudice ordinario delle controversie nelle quali fosse parte una pubblica amministrazione, decise di adottare la seconda soluzione (sia pure con determinati temperamenti).
Infatti, nel 1865, con L. n. 2248, allegato E (cd. legge abolitiva del contenzioso amministrativo) vennero aboliti i tribunali speciali del contenzioso amministrativo (ad eccezione della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato) e devolute alla giurisdizione ordinaria tutte le cause nelle quali si facesse questione di un diritto civile o politico (cioè, di un diritto soggettivo) leso da un atto dell’ autorità amministrativa.
È bene precisare, però, che i poteri del giudice ordinario vennero limitati, dal momento che egli poteva conoscere degli effetti dell’ atto amministrativo senza poterlo modificare o revocare, ma solo disapplicare nel caso concreto sottoposto al suo esame (se contrario alla legge).
Venne, pertanto, introdotto l’ obbligo, per le autorità amministrative, di conformarsi al giudicato dei tribunali ordinari che avevano incidentalmente riconosciuto l’ illegittimità dell’ atto.
La tutela degli interessi legittimi venne, invece, attribuita alle stesse amministrazioni (nell’ ambito del procedimento amministrativo) ovvero attraverso i ricorsi amministrativi gerarchici. Nel 1889, però, con L. n. 5992 (cd. legge Crispi), venne prevista e disciplinata la giurisdizione generale di legittimità sugli atti amministrativi lesivi di interessi legittimi attraverso l’ istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato (organo che, sino ad allora, aveva svolto funzioni solo consultive).
Successivamente, nel 1890, con L. n. 6837, venne attribuita alla Giunta provinciale amministrativa (organo periferico dell’ amministrazione dell’ Interno, presieduto dal prefetto e deputato ad esercitare il controllo di merito sugli atti degli enti locali) una competenza ricalcata su quella della IV sezione, ma limitata all’ impugnazione di una serie di atti in prevalenza delle amministrazioni locali (da sottolineare che le pronunce della Giunta potevano essere appellate dinanzi alla IV sezione del Consiglio di Stato).
Nel 1907, con L. n. 62 (cd. legge Giolitti) venne istituita la V sezione del Consiglio di Stato con giurisdizione di merito su determinate materie (nel contempo, venne riconosciuta la natura giurisdizionale delle sezioni IV e V).
Infine, nel 1923 (con regio decreto n. 2840) venne abolita la distinzione di competenza tra la IV e la V sezione del Consiglio di Stato e venne istituita la giurisdizione amministrativa esclusiva (del Consiglio di Stato) su determinate materie, la principale delle quali era sicuramente quella relativa al rapporto di impiego con lo Stato e gli enti pubblici: in questi casi, la giurisdizione del giudice amministrativo era determinata dalla materia e non dalla situazione soggettiva di interesse legittimo (tutta la materia, cioè, era attribuita al giudice amministrativo, sia che il privato avesse fatto valere un interesse legittimo, sia che avesse chiesto la tutela di un diritto soggettivo).