Un’ altra caratteristica del potere amministrativo è la discrezionalità, le cui premesse teoriche sono state individuate sin dall’ antichità: scriveva, infatti, Platone (nel Politico) che una legge non potrà mai ordinare con precisione, e per tutti, la cosa più buona e più giusta, indicando contemporaneamente anche ciò che è assolutamente valido.
Ancora più preciso Aristotele quando parlava della convivenza come di una forma particolare di giustizia: la legge è sempre una norma universale, mentre di alcuni casi singoli non è possibile trattare correttamente. […] Quando la legge parla in universale, allora è legittimo, laddove il legislatore ha trascurato qualcosa, correggere l’ omissione.
Oggi, quest’ opera di completamento della legge è affidata, nel nostro ordinamento, all’ amministrazione e ai giudici; ovviamente tale operazione conosce determinati confini, fissati dalla Costituzione, la quale, con riferimento alla P.A., stabilisce che il Parlamento non può fare della P.A. un legislatore delegato, perché tale delega è ammessa solo nei riguardi del Governo; la Costituzione, però, presuppone comunque questa operazione, perché se la legge pretendesse di regolare in anticipo tutto verrebbe pregiudicata quell’ esigenza di flessibilità e di aderenza alle circostanze concrete (esigenza che risulta incorporata nel principio del buon andamento dell’ amministrazione, ex art. 97 Cost.).
Detto ciò, le norme che conferiscono poteri all’ amministrazione hanno la seguente struttura: se si verifica A (che può essere un fatto da accertare o un fatto da valutare), allora l’ autorità può e deve fare B (che può essere un atto vincolato o discrezionale). Facciamo qualche esempio: se una cosa immobile ha cospicui caratteri di bellezza naturale, la regione emette la dichiarazione di notevole pubblico interesse (in questo caso, il fatto è da valutare: è richiesto, cioè, un giudizio, non solo di fatto, ma anche di valore); se un pubblico esercizio viene chiuso per più di otto giorni, senza che sia dato avviso all’ autorità locale di p.s., la licenza viene revocata (in questo secondo caso, il fatto è da accertare: occorre, cioè, accertare se l’ esercizio è stato chiuso per più di otto giorni).
In entrambi gli esempi avanzati la decisione della P.A. parrebbe obbligata: al riconoscimento di bellezza naturale consegue la dichiarazione di notevole pubblico interesse; accertata la chiusura del pubblico esercizio per più di otto giorni, senza che il titolare ne abbia dato comunicazione all’ autorità di p.s., la licenza va revocata.
In realtà, però, le cose stanno in modo diverso: nel primo caso, potrebbe, infatti, accadere che l’ area dichiarata di notevole interesse pubblico sia più ristretta di quella proposta per il vincolo (sicché, per una parte la proposta non viene accolta); può anche accadere che la proposta venga rigettata del tutto (perché sull’ immobile grava un altro vincolo, ad es. a parco, idoneo a garantire comunque la salvaguardia dei caratteri di bellezza naturale).
Neppure nel secondo caso la decisione è obbligata: sarebbe, infatti, illegittima la revoca della licenza di esercizio, motivata con la chiusura dei locali per più di otto giorni, senza darne comunicazione all’ autorità di p.s., se il titolare dimostrasse di essere stato nell’ impossibilità di comunicare, perché trattenuto da uno sciopero in un’ isola lontana, non collegata da alcun mezzo di comunicazione alla città in cui l’ esercizio era ubicato.
L’ accertamento dei presupposti e la discrezionalità
Dagli esempi fatti, si intuisce, quindi, che l’ accertamento dei presupposti consiste quasi sempre in un fatto da valutare e non in un fatto puramente da accertare, e che la stessa complessità presenta la conseguenza, ossia la decisione da prendere. Per comprendere quanto detto facciamo un altro esempio: le opere eseguite in parziale difformità dalla concessione sono demolite a cura e spese del responsabile dell’ abuso e, in difetto, dal comune (a spese del responsabile); se la difformità è totale, e il responsabile non demolisce, il comune adotta la diversa misura dell’ acquisizione dell’ immobile al patrimonio del comune. Ora, accertare che una difformità è parziale può essere un’ operazione complicata, perché occorre anche accertare che la demolizione della parte di costruzione difforme dalla concessione non pregiudichi la parte conforme: se, infatti, c’è tale pregiudizio, in alternativa alla demolizione va applicata una sanzione pecuniaria. Ciò non solo conferma la funzione cruciale dell’ accertamento dei presupposti di fatto, ma spiega anche perché il discorso sulla discrezionalità investa entrambi i momenti (della premessa normativa e della conseguenza decisionale).
La discrezionalità come potere di scelta
All’ accertamento dei presupposti indicati dalla legge segue la decisione dell’ amministrazione, cioè, la scelta. Questa, ovviamente, non può esserci nei casi in cui le risultanze dell’ istruttoria conducano ad una soluzione obbligata (si pensi, ad es., all’ ipotesi dell’ autorizzazione, il cui rilascio dipende esclusivamente dall’ accertamento dei presupposti e dei requisiti di legge).
Nella maggioranza dei casi, però, l’ istruttoria conclusa lascia aperta una scelta ed è questa scelta che qualifica la discrezionalità (discrezionalità amministrativa significa, appunto, facoltà di scelta nell’ esercizio di un potere amministrativo). La scelta, secondo la dottrina dominante in Italia, è collegata alla pluralità degli interessi in gioco, pubblici e privati, di cui l’ amministrazione è tenuta a tener conto; proprio per tal motivo la discrezionalità viene identificata con una valutazione comparativa di interessi (ad es., il piano regolatore comunale tocca tutti gli interessi che hanno un rapporto con il territorio: interessi dominicali, interessi produttivi, interessi culturali, interessi turistici; pertanto, il consiglio comunale articolerà la sua scelta a seconda che voglia tutelare l’ uno più dell’ altro interesse).
La dottrina, concordando sostanzialmente sull’ idea della discrezionalità come scelta, ha individuato l’ oggetto di questa scelta nei seguenti elementi: l’ an (se adottare o no il provvedimento), il quando (quando adottarlo), il quomodo (con quali modalità, condizioni o clausole accessorie) e il quid (con quale contenuto). Tale costruzione presenta, però, determinati limiti.
Per quanto riguarda l’ an, infatti, occorre sottolineare che non è frequente che l’ amministrazione sia libera di scegliere se adottare o non il provvedimento (no lo è quando il procedimento sia ad iniziativa di parte e l’ amministrazione abbia l’ obbligo di avviarlo: si pensi, ad es., alla richiesta di autorizzazione); l’ alternativa è, invece, prospettabile nei procedimenti sanzionatori o in quelli di annullamento d’ ufficio (ma si tratta di casi sporadici).
Anche la discrezionalità sul quando non riveste molta rilevanza, dal momento che la legge, di norma, impone all’ autorità di concludere il procedimento entro un termine prefissato [tra l’ altro, occorre considerare che anche i giorni che precedono il termine finale, tra i quali l’ amministrazione potrebbe scegliere per provvedere (esercitando, quindi, una discrezionalità sul quando), servono, in realtà, per l’ istruttoria, ossia per l’ accertamento dei presupposti dell’ atto].
Per quanto riguarda, invece, il quid (con quale contenuto adottare il provvedimento), va detto che l’ autorità incontra, innanzitutto, il limite della tipicità del provvedimento (ad es., essa non può revocare la licenza di pubblico esercizio per sanzionare il rifiuto del titolare di dare informazioni alla polizia). La discrezionalità consente, però, l’ alternativa tra il rifiuto o il rilascio (quando è il privato a chiedere il provvedimento); in realtà, è bene precisare che il margine di scelta è molto più ampio, perché in questi casi l’ autorità può rilasciare il provvedimento, ma a determinate condizioni (si pensi, ad es., all’ eliminazione di un’ elevazione dal progetto di costruzione, per il quale il proprietario abbia chiesto il permesso di costruire).
Giungiamo così, infine, alla discrezionalità nel quomodo (cioè, con quali modalità, condizioni o clausole accessorie adottare il provvedimento): infatti, come già detto in precedenza, il provvedimento è suscettibile di clausole accessorie, purché, ovviamente, non ne venga intaccata la tipicità (si pensi, ad es., ad una concessione edilizia che venga rilasciata a condizione che il proprietario provveda alla manutenzione ordinaria e straordinaria della strada pubblica antistante).
La questione della discrezionalità tecnica
Soltanto se si accetta l’ idea che la discrezionalità attiene non soltanto al momento della decisione, ma anche a quello della valutazione del fatto, ha un senso la categoria della discrezionalità tecnica: questa ricorre quando il giudizio che è richiesto all’ autorità amministrativa deve essere espresso sulla base di conoscenze specialistiche non giuridiche, ma scientifiche, proprie della fisica, della chimica, dell’ estetica, dell’ archeologia, etc. (si pensi, ad es., all’ individuazione dei giacimenti di gas a marginalità economica ovvero all’ individuazione degli spartiti musicali di pregio artistico o storico da sottoporre alla disciplina dei beni culturali).
Ciò che unifica le ipotesi su citate non è solo la natura del criterio che informa il giudizio (criterio mutuato da una disciplina scientifica), ma è anche il margine di opinabilità che qualifica il giudizio; ed è proprio in virtù di tale opinabilità che parte della dottrina ritiene che il giudice (ordinario e amministrativo) non possa sindacare l’ atto di esercizio della discrezionalità tecnica: si dice, cioè, che il giudice non può sostituire il suo giudizio a quello che l’ amministrazione ha espresso sulla base di una scienza o di una tecnica diversa dal diritto.
In realtà, i due criteri su menzionati non valgono ad inibire il controllo del giudice: non l’ opinabilità, che può, tutt’ al più, obbligare il giudice a far salva la valutazione dell’ amministrazione che si mantenga nei limiti di quel margine (di opinabilità); non il carattere scientifico del giudizio, dal momento che il giudice, grazie alla consulenza tecnica, è in grado di controllare quel giudizio.
Il sindacato sulla discrezionalità
Secondo la concezione originaria (risalente alla dottrina francese della prima metà del XIX sec.), atto discrezionale era sinonimo di atto insindacabile da parte del giudice. Oggi, invece, le cose stanno in modo diverso, perché contro gli atti della P.A. è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (art. 113 Cost.): ciò significa non solo che l’ atto discrezionale è sindacabile, ma che esso è comunque suscettibile di ledere un diritto o un interesse legittimo.
Ora, poiché la discrezionalità si risolve in una scelta dell’ amministrazione, occorre stabilire come possa conciliarsi questa (relativa) libertà di scelta con la tutela di una situazione giuridica soggettiva (diritto o interesse), che il titolare pretende lesa. In realtà, partendo dal presupposto che il provvedimento è quello concretamente adottato, ma avrebbe potuto essere diverso, il giudice (amministrativo) ha focalizzato la sua attenzione non sul contenuto dell’ atto, ma sul modo in cui l’ autorità è pervenuta alla sua adozione: da qui è stata enucleata una serie di regole e di princìpi sull’ elaborazione dei provvedimenti discrezionali (che hanno finito per condizionare l’ intera attività amministrativa).
In questa prospettiva, va detto che l’ esigenza di contemperamento tra la libertà di azione dell’ amministrazione e la tutela del privato viene soddisfatta, innanzitutto, con il procedimento amministrativo e con la partecipazione del privato al procedimento.
L’ accertamento dei fatti e dei presupposti (che la legge richiede per l’ esercizio del potere amministrativo) è rimesso all’ istruttoria, che rappresenta una fase necessaria del procedimento amministrativo e le cui risultanze orientano la decisione dell’ autorità. Quest’ ultima deve essere preceduta da una valutazione comparativa degli interessi in gioco; e l’ esame di questi interessi è formalizzato nell’ istituto della conferenza di servizi.
Trova, poi, applicazione un principio di particolare importanza, vale a dire: il principio di ragionevolezza. Ragionevole deve essere non solo la disposizione di legge, ma anche il provvedimento che vi dà attuazione; e la ragionevolezza di questo va valutata in relazione alle circostanze di fatto, ai precedenti e al contesto complessivo: ad es., che un maresciallo dei carabinieri si appropri del cellulare di una persona coinvolta in un incidente stradale e trasportata in ospedale è certamente grave; tuttavia, che per quest’ unico episodio il maresciallo venga privato del grado, senza che vi sia a suo carico un solo precedente disciplinare in una carriera che dura da decenni, è certamente irragionevole.