L’ organizzazione amministrativa, a causa della sua complessità, esige degli strumenti di raccordo (tra enti diversi, tra organi di uno stesso ente, tra organi e meri uffici di uno stesso ente, tra organi di un ente e organi di un altro ente). Tali strumenti sono: il procedimento, gli accordi, la gerarchia, la direzione, la sostituzione ed i controlli.

Il procedimento

Il primo tra gli strumenti di raccordo è il procedimento, il quale rappresenta, per un verso, il luogo in cui i portatori di interessi pubblici diversi fanno sentire la loro voce ed esprimono le loro istanze in relazione ad un progetto; per altro verso, esso rappresenta la sequenza nella quale i singoli interventi sono ordinati sulla base di relazioni predefinite (così, ad es., la legislazione urbanistica prevede che la giunta comunale conferisca l’ incarico della relazione del piano regolatore generale; che il consiglio comunale adotti il piano predisposto dal gruppo di progettazione e prenda posizione sulle osservazioni dei privati; e che la regione adotti il piano, previo parere di un organo di consulenza).

Come si può notare, la molteplicità di queste relazioni può rendere vulnerabile il provvedimento conclusivo (che può risultare, ad es., illegittimo), ma soprattutto allunga i tempi per la conclusione del procedimento. Per rimediare a questi inconvenienti la legge sul procedimento amministrativo (L. 241/90) ha introdotto alcuni correttivi: innanzitutto, la legge stabilisce un termine per l’ esercizio della funzione consultiva (45 gg.); pertanto, una volta che sia decorso infruttuosamente tale termine, l’ amministrazione che ha chiesto il parere può procedere come se lo avesse acquisito.

In secondo luogo, è prevista la possibilità di indire una conferenza di servizi qualora si debbano valutare contestualmente vari interessi pubblici o quando sia in gioco la programmazione di opere pubbliche che richieda l’ intervento di più amministrazioni (nella conferenza di servizi gli atti, invece di essere emessi in sequenza, sono presi in sede collegiale).

Infine, è previsto (per le autorizzazioni, le licenze, i nulla osta ed altri atti del genere), che, decorso un certo termine, essi si considerano rilasciati: il silenzio dell’ amministrazione (che dovrebbe provvedere) viene, così, equiparato ad un atto di assenso. Tale meccanismo comporta una precoce conclusione del procedimento [questo, tuttavia, resta aperto nei casi in cui l’ attività privata sia subordinata ad un provvedimento espresso (ad es. licenza) che tarda a venire].

Gli accordi

Per affrontare problemi comuni le amministrazioni hanno sempre fatto ricorso ad accordi; questi vengono, il più delle volte, conclusi allo scopo di vincolare l’ esercizio delle rispettive competenze, di predeterminare i tempi entro i quali le stesse devono essere esercitate, di quantificare i rispettivi impegni finanziari e di stabilire le conseguenze degli eventuali inadempimenti. In questo modo, i piccoli comuni hanno realizzato servizi che da soli non sarebbero stati in grado di rendere (si pensi, ad es., al servizio veterinario o al servizio di trasporto urbano); allo stesso modo, gli ospedali pubblici e le cliniche universitarie hanno razionalizzato il complesso delle prestazioni sanitarie (ad es., fornendo, i primi, le strutture ed il personale paramedico; le seconde, il personale medico).

È bene precisare, però, che il problema del coordinamento dell’ azione amministrativa è particolarmente complesso quando le attribuzioni sono, per un verso, costituzionalmente garantite (Stato, regioni, province autonome e, indirettamente, enti locali), ma, per altro verso, tendono a sovrapporsi (e ciò accade ogni volta che tali attribuzioni sono distinte non in base ad un criterio materiale, ma spaziale): si pensi, ad es., alla materia ambientale, in cui tutti gli enti territoriali, dallo Stato al comune, sono competenti.

In questa prospettiva, la legislazione ha dovuto affrontare il problema dell’ asimmetria del rapporto tra un unico Stato, 20 regioni e più di 8000 enti locali. Tale problema è stato risolto con il d.lgs. 281/97, con il quale è stata istituita la cd. Conferenza Stato-regioni: e ciò al fine di garantire la partecipazione delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano a tutti i processi decisionali di interesse regionale, interregionale ed infraregionale. La Conferenza deve essere sentita in tutti i casi in cui la legislazione preveda un’ intesa tra Stato e regioni; qualora, però, l’ intesa non venga raggiunta, il Consiglio dei ministri può provvedere, in via autonoma, con deliberazione motivata (da ciò si intuisce che l’ intesa si configura come un parere obbligatorio, ma non vincolante).

Diverso dall’ intesa è, invece, l’ accordo, il quale presuppone la convergenza del Governo e di tutte le regioni e province autonome su un unico testo (esso viene perfezionato al fine di coordinare l’ esercizio delle rispettive competenze e svolgere attività di interesse comune).

Infine, le relazioni tra lo Stato e gli enti locali sono intrattenute nell’ ambito della Conferenza Stato-città ed autonomie locali: la conferenza è presieduta dal Presidente del Consiglio dei ministri e vi partecipano, da un lato, alcuni ministri (economia, infrastrutture, sanità) e, dall’ altro, i presidenti dell’ ANCI (Associazione nazionale comuni italiani), dell’ UPI (Unione delle province d’ Italia) e dell’ UNCEM (Unione nazionale comuni, comunità ed enti montani), 14 sindaci designati dall’ ANCI e 6 presidenti di provincia designati dall’ UPI.

La gerarchia

La gerarchia è una relazione che accomuna organizzazioni pubbliche e organizzazioni private: essa designa il diritto di chi riveste una qualifica superiore di comandare colui il quale, nell’ ambito dello stesso ufficio o di un ufficio diverso (ma collegato), riveste una qualifica inferiore (cd. gerarchia di persone). Si parla, però, anche di gerarchia di uffici (o di organi): in questo senso, ad es., il Ministro dell’ Interno è sovraordinato alla prefettura.

La gerarchia è una relazione interna all’ ente (o all’ apparato ministeriale); essa, pur presupponendo una distinzione di competenze (tra organi) o di compiti (tra uffici o persone), comporta una certa commistione, che si manifesta: con il potere di sostituzione (che il superiore ha nei confronti dell’ inferiore); con il potere di avocazione (spettante al superiore) di un certo affare rientrante nei compiti dell’ inferiore; e con il potere (del superiore) di annullare atti posti in essere dall’ inferiore e di decidere i ricorsi gerarchici proposti contro atti dell’ inferiore.

Ovviamente, la gerarchia, per definizione, è una relazione alla quale sfuggono gli organi e gli uffici collegiali, i quali, infatti, vengono istituiti affinché la decisione si formi al loro interno attraverso il dialogo (prima) ed il voto (poi): ed invero, la ratio della collegialità verrebbe meno se, alla volontà del collegio, un superiore gerarchico potesse sostituire la sua volontà.

La gerarchia ha un limite: qualora, infatti, l’ ordine impartito dal superiore gerarchico dovesse apparire illegittimo, l’ inferiore deve farne rimostranza, spiegandone le ragioni; è tenuto, però, ad obbedire se l’ ordine viene rinnovato per iscritto, a meno che l’ atto non sia vietato dalla legge penale.

La direzione

Diversa dalla gerarchia è la direzione: essa si esprime non in ordini, ma in direttive o atti di indirizzo, ossia in atti che vincolano nel fine, ma non nei mezzi per raggiungerlo (questi ultimi, infatti, sono rimessi al soggetto che è destinatario della direttiva).

La direttiva è oggi essenzialmente una relazione interna allo stesso apparato: più precisamente, è la relazione che intercorre tra l’ organo politico e la dirigenza burocratica, così come si desume dall’ art. 4 d.lgs. 165/01, il quale, infatti, stabilisce che gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi e i programmi da attuare; ai dirigenti spetta l’ adozione degli atti e provvedimenti, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa.

A differenza della gerarchia, inoltre, colui che è soggetto alla direttiva ha anche un limitato potere di disattenderla, purché ne enunci le ragioni (ciò che, appunto, non è consentito a colui che è sottoposto ad un potere di gerarchia, tranne nei casi di ordine illegittimo); quanto detto si desume dalla citata disciplina del rapporto tra organo politico e dirigente: infatti, la direttiva, che l’ organo politico rivolge ai dirigenti, è anche frutto della proposta di questi ultimi, i quali concorrono alla formazione dell’ atto.

La sostituzione

Vi sono, infine, dei casi in cui l’ esercizio dei poteri amministrativi (in genere, doveroso) è particolarmente serio, perché ad esso corrisponde una pretesa che non è del solo cittadino, ma anche di altri soggetti (ad es., l’ Unione europea o uno Stato estero con il quale è stato stipulato un Trattato). In questi casi, se l’ ente munito di attribuzioni (o l’ organo dotato di competenze) risultasse inattivo e contro tale inattività non fosse previsto alcun rimedio potrebbero generarsi inadempimenti ad obblighi internazionali o inerzie pericolose per gli interessi pubblici coinvolti.

Il meccanismo che è stato escogitato per evitare questa paralisi è quello della sostituzione: sicché l’ inerzia di chi sarebbe tenuto a provvedere costituisce (in certi casi, predeterminati dalla legge) il presupposto dell’ intervento sostitutivo di un organo o di un ente diverso (la sostituzione, ad es., è prevista dalla Costituzione per l’ ipotesi nella quale le regioni, nelle materie di loro competenza, omettano di provvedere all’ attuazione o all’ esecuzione degli accordi internazionali; in questi casi, lo Stato, attraverso il Governo, può sostituirsi alla regione inadempiente).

I controlli

Il controllo è una tipica relazione tra figure soggettive: tra organi di uno stesso ente, tra organi di enti diversi, tra uffici diversi di uno stesso ente. Esso presuppone la sussistenza di un parametro alla stregua del quale valutare l’ atto o l’ attività altrui: nella storia delle amministrazioni, il parametro prevalentemente utilizzato è stato la legge (cd. controllo di legittimità). Non a caso, la Costituzione italiana (prima della modifica apportata al Titolo V nel 2001) prevedeva un controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, affidato alla Corte dei Conti (art. 100); un controllo di legittimità sugli atti amministrativi della regione, affidato ad un organo dello Stato (art. 125); ed un controllo di legittimità sugli atti delle province, dei comuni e degli altri enti locali, affidato a un organo delle regioni (art. 130). I suddetti controlli venivano definiti preventivi, perché il controllo veniva esercitato prima che l’ atto controllato potesse produrre i suoi effetti.

Negli anni ‘90, però, il numero dei controlli ha cominciato a subire una drastica riduzione: ed infatti, mentre in passato tutti i decreti ministeriali (qualunque ne fosse l’ oggetto) erano sottoposti al controllo di legittimità della Corte dei Conti, dal ‘94 il controllo è stato limitato ai provvedimenti emanati a seguito di deliberazione del Consiglio dei Ministri, agli atti normativi a rilevanza esterna, ai provvedimenti di disposizione del demanio e del patrimonio e ad altri pochi atti.

Nel 1997 sono stati, poi, soppressi i controlli statali sugli atti amministrativi delle regioni; mentre i controlli sugli enti locali sono stati ridotti. Con la riforma del Titolo V della Costituzione sono stati, infine, abrogati gli artt. 125, co. 1 e 130 Cost., che li prevedevano entrambi.

Da alcuni anni l’ attenzione si è, pertanto, spostata dai controlli sui singoli atti al controllo sull’ attività nel suo complesso: in particolare, è stato sostenuto che se l’ attività amministrativa è retta da criteri di efficacia e di economicità è logico che anche il controllo si ispiri agli stessi canoni (e non più soltanto al canone della legittimità). Un giudizio di economicità e di efficacia, tuttavia, non può essere emesso in relazione al singolo atto, ma in relazione ad un’ attività complessiva, considerata in un arco temporale predefinito (un anno, sei mesi, etc.).

La svolta si è manifestata, in primo luogo, negli enti locali: la L. 241/90 ha, infatti, introdotto nei comuni e nelle province la revisione economico-finanziaria, affidandola ad un collegio di revisori; successivamente (nel 1995), è stato introdotto il controllo di gestione.

La materia dei controlli è stata, poi, disciplinata in termini generali, per tutte le amministrazioni, dal d.lgs. 286/1999: si precisa, innanzitutto, che il controllo in esame è interno: interno, cioè, a ciascuna amministrazione; a sua volta, il controllo interno viene distinto in controllo di regolarità amministrativa e contabile, controllo di gestione (il quale investe il rapporto tra costi e risultati) e controllo strategico (che riguarda, invece, il rapporto tra obiettivi e risultati). Da quanto detto si evince con chiarezza che il punto di riferimento dei controlli interni è il principio costituzionale del buon andamento (art. 97 Cost.).

Nel sistema dei controlli interni occupa, invece, un posto a sé la valutazione dei dirigenti (ossia dei soggetti responsabili della gestione e dei risultati): la valutazione può sfociare in misure correttive, come il passaggio ad altro incarico o la revoca dello stesso incarico.

È necessario sottolineare, infine, che la Costituzione indica anche un terzo tipo di controllo: ai sensi, infatti, dell’ art. 100, la Corte dei Conti esercita anche il controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato e partecipa al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria (tale controllo tende, in particolare, ad impedire lo sperpero di risorse che sono state acquisite quasi interamente attraverso il prelievo tributario).

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