Nel 1912, con L. n. 305, veniva istituito l’ INA (Istituto Nazionale per le Assicurazioni), avente lo scopo di gestire le assicurazioni-vita mediante la vendita di polizze (garantite dallo Stato), il cui gettito sarebbe stato destinato a scopi di interesse pubblico (in particolare: al finanziamento delle infrastrutture industriali); il nuovo ente era caratterizzato da strutture snelle, presenza di poche regole interne, utilizzo di tecnici e rapporti con il personale di tipo privatistico.

Con l’ istituzione dell’ INA veniva, in questo modo, creato un prototipo che sarebbe stato replicato con grande successo durante il fascismo (a partire dagli anni ’30) e poi nell’ età repubblicana (a partire dagli anni ’50): l’ ente pubblico economico, ossia l’ ente pubblico che ha per oggetto esclusivo un’ attività economica. Ciò che caratterizza questo ente è, più precisamente, la sussistenza di un singolare connubio di attività economica (di un’ attività, cioè, priva del tratto autoritativo che contraddistingue gli enti pubblici) e di finalità pubblicistiche: sicché il fine pubblico dell’ ente viene perseguito attraverso un’ attività imprenditoriale, costituita essenzialmente da contratti, anziché da provvedimenti amministrativi (dal normale imprenditore, però, l’ ente pubblico economico si distingue perché non persegue fini di lucro o, più correttamente, persegue un lucro da devolvere a fini pubblici).

L’ altra caratteristica degli enti pubblici economici è il fatto che essi non sono muniti di poteri amministrativi; la questione, per lungo tempo, si è posta, in particolare, in sede di delimitazione della giurisdizione sull’ impiego presso enti pubblici economici. Il legislatore fascista del 1938, infatti, sottraendo gli impiegati in questione al divieto di inquadramento sindacale (stabilito per tutti gli impiegati pubblici), li sottopose alle norme del libro del lavoro del codice civile; e qualche anno dopo, il codice di rito attribuì la competenza giurisdizionale sulle controversie con gli enti datori di lavoro al giudice ordinario.

Con la caduta del regime fascista e, quindi, dell’ inquadramento sindacale dei lavoratori presso gli enti pubblici economici, nacque, però, un contrasto tra Consiglio di Stato e Corte di Cassazione: il primo, infatti, sosteneva che, con la caduta dell’ inquadramento sindacale (proprio del corporativismo fascista) fosse venuta meno la giurisdizione del giudice ordinario e che il relativo contenzioso fosse attratto nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; la Cassazione, invece, riteneva che la giurisdizione del giudice ordinario non dipendeva dall’ inquadramento sindacale degli enti economici, ma dal carattere imprenditoriale della loro attività.

Quest’ ultima tesi, che si rivelò vincente, consentì di mettere a fuoco anche l’ altro aspetto fondamentale dell’ ente pubblico economico e cioè che gli atti organizzativi (ad es., i regolamenti organici, gli atti di approvazione delle piante organiche, la determinazione dei criteri per le promozioni) e gli atti di gestione del rapporto di lavoro non erano provvedimenti amministrativi (tali atti, infatti, ad avviso del Supremo Collegio, dovevano essere assimilati ai regolamenti di impresa delle imprese private).

La disputa si è chiusa, sul piano legislativo, con la L. 533/73, che ha attribuito al giudice ordinario la giurisdizione sulle controversie di lavoro degli enti pubblici economici.

Detto ciò, appare utile sottolineare che della figura in esame sono state proposte varie classificazioni; in particolare, dal punto di vista dei fini, gli enti pubblici economici si distinguono in:

• enti di disciplina di settore, che sono chiamati a reggere e regolare un certo settore economico (Banca d’ Italia, IRI, ENI, EFIM);

• enti imprenditoriali, che svolgono un’ attività economica di produzione di beni e servizi (Banco di Napoli, Banco di Sicilia, Monte dei Paschi di Siena, ENEL).

In base al criterio degli schemi organizzativi, invece, un posto a sé hanno occupato gli enti di gestione delle partecipazioni statali: IRI, ENI, EFIM, GEPI.

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