Questo è possibile per le cosiddette “imprese minori”: essi sono dei soggetti per cui la legge prescrive obblighi contabili meno stringenti in virtù delle dimensioni . Il 62 bis d.l.331/1993 ha introdotto questo sistema. In particolare gli uffici amministrativi (con associazioni professionali e di categoria) elaborano appositi studi di settore idonei ad individuare elementi caratterizzanti l’attività esercitata, rendendo così più efficace l’azione accertativa verso i contribuenti appartenenti allo stesso settore economico. Gli effetti degli studi di settore sono previsti dal 3° 62 sexies che prevede la possibilità di una rettifica analitica fondata sull’esistenza di gravi incongruenze tra ricavi, compensi, corrispettivi dichiarati. Così dicendo, ai risultati degli studi di settore è data un’efficacia dimostrativa privilegiata (idonea a dimostrare una base attendibile della rettifica, salva la possibilità per il contribuente di dimostrare positivamente la differente composizione dei fattori economici nella specifica attività realizzata). Attualmente però il 37 2° d.l.223/2006 ha modificato il 10 l.146/2008, concernente le modalità d’utilizzazione degli studi di settore in sede d’accertamento. Ad oggi la nuova disciplina permette di rettificare la dichiarazione riguardanti ogni periodo d’imposta, in relazione a cui il contribuente non è risultato congruo, con le risultanze degli studi di settore, superando quindi la regola dell’incongruenza dei 2 periodi d’imposta su 3 precedentemente prevista dal citato 10 2°. La problematica è però sulle caratteristiche di formazione degli studi di settore: questi si fondano su un’analisi di tipo statistico delle diverse realtà economiche e ciò non si raccorda bene con la funzione dimostrativa di tipo storico che dovrebbe caratterizzare la prova del fatto a rilevanza tributaria. Da ciò si apre la discussione riguardo la natura giuridica da attribuire agli studi di settore: ciò secondo alcuni porterebbe ad inquadrarli tra le presunzioni semplici (inidonee ad invertire l’onere della prova del fatto ignoto, ma destinate ad operare insieme ad altri elementi indiziari); altri autori riconoscono la natura presuntiva dello strumento (ma vi attribuiscono natura legale ritenendo sussistenti negli studi di settore i requisiti di gravità, precisione, concordanza, con possibilità comunque di prova contraria a carico del contribuente). In altri studi si è cercato di ricostruire la portata dimostrativa degli studi di settore, facendo leva sul concetto di “massime di comune esperienza” per le quali il giudice potrebbe prescindere dall’accertamento del fatto ignoto (derivando da ciò la limitazione dell’inversione dell’onere della prova da essi derivante alla massima stessa). C’è poi un’altra tesi, per cui gli studi di settore, fondandosi su dati statistici e descrittivi, non potrebbero assurgere a elementi dimostrativi del fatto ignoto, mentre rappresenterebbero “fatti di mera conoscenza” destinati a costituire parti tecniche estimative di un discorso retorico di tipo deliberativo. Se si riconoscesse natura presuntiva agli studi di settore, gli stessi dovrebbero valere anche a favore del contribuente. Queste perplessità però non devono far abbandonare la visione legislativa, che ha ritenuto di affidare la ricostruzione del fatto ignoto nell’accertamento dei soggetti di ridotte dimensioni economiche a strumenti di correttezza sistematica. A livello Costituzione poi tutto regge: infatti il contribuente ha diritto alla prova contraria.  Nella pratica si sono rilevati come un efficace strumento di gettito.

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