La quaestio perpetua repetundarum servì da modello ad altre corti giudicanti, che furono in seguito istituite per la repressione di altri crimini, sia politici che comuni.
Le testimonianze delle fonti sui modi e sull’epoca di introduzione nell’organizzazione giudiziaria romana di altri tribunali permanenti dopo quello istituito da Gaio Gracco sono purtroppo scarse.
Qualcosa di più sappiamo in ordine all’estensione del sistema delle quaestiones perpetuae ai reati comuni. Non può esservi dubbio che una corte per i casi di omicidio perpetrato con armi e una per i casi di veneficio (omicidio commesso mediante veleno) abbiano visto la luce è già in età presillana.
La prima attestazione sicura dell’esistenza di un tribunale stabile per l’omicidio è rinvenibile nell’orazione ciceroniana indifesa di Sesto Roscio Amerino, pronunciata dagli inizi dell’80 a.C., in cui si accenna a una quaestio de sicariis operante anteriormente alla restaurazione sillana.
Quanto al veneficio, l’esistenza di una corte permanente adibita a conoscere sembra accertata, per gli anni precedenti la guerra civile, dall’opera di Cicerone, composta intorno al 85 a.C., De inventione.
Non vi è alcuna prova scritta, invece, in favore dell’istituzione di una quaestio perpetua per il delitto di plagio.
Appare evidente che nel periodo tra Gaio Gracco e la restaurazione sillana i tribunali permanenti costituiti da apposite leggi per la persecuzione di determinati crimina erano ancora abbastanza rari. Sulla loro struttura e sul loro funzionamento siamo poco informati, ma è plausibile pensare che per ciascuna corte si formasse annualmente una lista di giudici, dalla quale si traevano quelli che dovevano formare la giuria del singolo processo.
Non essendovi un numero sufficiente di pretori, la presidenza doveva essere spesso affidata a un iudex quaestionis di rango edilizio. Il diritto d’accusa fu riconosciuto a qualunque cittadino quale rappresentante della collettività.
Quanto al titolo richiesto per l’iscrizione nell’album iudicium, esso variò più volte in relazione alle diverse fasi della lotta che oppose per oltre un cinquantennio il senato e il ceto equestre. Varie leggi si succedettero, alcune relative alle corti in generale, altre alla quaestio de repetundis in particolare, segnando il ritmo dell’alterno prevalere delle fazioni.
Nel 106 a.C. il console Q. Servilio Cepione fece votare una lex iudiciaria che aboliva quella di Gaio Gracco e toglieva agli equites il monopolio delle giurie. Le contraddizioni delle fonti non ci permettono di determinare con esattezza la portata del provvedimento: a detta di Tacito, la legge avrebbe restituito i tribunali al senato, ma sembra più attendibile la tradizione di Livio secondo cui essa avrebbe associato nella giudicatura i senatori ai cavalieri.
Pochi anni più tardi un plebiscito del tribuno C. Servilio Glaucia affidò nuovamente ai soli cavalieri i processi che si svolgevano davanti alla quaestio dei repetundis. Giudici equestri furono chiamati anche a costituire la nuova corte permanente per le offese alla maiestatis populi romani nel 103 da Appuleio Saturnino.
Per quanto riguarda gli altri tribunali è probabile che abbiano continuato a funzionare le preesistenti giurie miste. Nel 99 a.C.,1 legge di Plauzio Silvano, sancì l’elezione popolare di 15 giudici per ciascuna tribù senza riguardo per l’appartenenza degli eletti al senato, al ceto equestre o a classi inferiori. Tale procedura, con ogni probabilità, rimase in vigore fino alla riforma giudiziaria di Silla.