Giurisdizione criminale del re come comandante militare
Non sempre l’intervento punitivo è riconducibile all’idea di purificazione della società dinanzi alla collera divina. Accanto ai reati colpiti da sacertà e da obbligo sacrale della vendetta, vi sono altri fatti criminosi oggetto di pubblica persecuzione, per fini non purificatori, in quanto rivolti contro l’esistenza della compagine sociale, sulla base del principio: all’offesa si risponde con l’offesa.
Tra di essi si annoverano il tradimento col nemico e gravi delitti militari. In questi casi il re non opera come sacerdote, ma opera in veste di comandante militare con potere illimitato di coercizione derivante dal suo imperium. Egli non è vincolato da norme o procedure: è libero di adottare tutti provvedimenti che ritiene necessari. La pena ha carattere laico, e consiste nella fustigazione e successiva decapitazione con la scure.
Ausiliari del re. Tracce di una partecipazione del popolo ai giudizi criminali
Sensibili divergenze tra le narrazioni di Livio e Dionigi di Alicarnasso rendono dubbio se il re giudicasse:
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da solo
- dopo aver ascoltato il consiglio degli anziani
- con la partecipazione degli anziani
Il re, nella persecuzione di alcuni crimini, si avvaleva probabilmente di ausiliari, soprattutto considerando il numero degli illeciti per cui egli era chiamato a procedere. Non è però chiaro chi fossero questi ausiliari e quali fossero le loro funzioni. La tradizione, a questo proposito, parla di:
- Quaestores parricidi: con il compito di accertare se l’omicidio fosse o meno avvenuto con dolo. Essi, dovevano poi sovrintendere all’esercizio della vendetta dinanzi al popolo in contione (riunione in comizio del popolo).
- Duumviri: costituivano un tribunale straordinario con il compito di proclamare la responsabilità e procedere all’esecuzione capitale del reo in perdullione colto in flagranza
- à perduellio: crimine contro l’ordine pubblico della civitas
È più difficile determinare se il popolo intervenisse nei procedimenti penali. Una tradizione raccolta da Cicerone e da Livio fa risalire al tempo dei re il diritto del cittadino minacciato di pena capitale di invocare il giudizio dell’assemblea popolare: provocatio ad populum.
La più antica testimonianza di tale diritto è dato dal celebre processo dell’Orazio, unico superstite della lotta con i Curiazi, condannato a morte per perdullione ma graziato dal popolo per le benemerenze acquisite verso la patria.
Il giudizio dell’assemblea popolare (provocatio ad populum), costituisce una tipica istituzione repubblicana. Difatti, la vicenda dell’Orazio superstite, non venne inventata dall’annalistica ma deriva da un antico episodio del patrimonio epico. Il racconto originario non conteneva probabilmente alcun accenno alla provocatio. Sicuramente il popolo interveniva nel giudizio su iniziativa del re, che con il supporto dell’opinione pubblica intendeva sottrarre l’eroe alla pena prevista dalla legge. Solo in epoca più tarda, gli analisti, per confermare l’antichità dell’istituto, crearono un processo archetipo, che riportasse le sue origini all’età regia.
Ci fu pertanto una rielaborazione della storia per introdurre la clausola di provocazione. Lo stesso racconto di Livio ha evidenti tracce di sovrapposizione della versione più recente a quella originaria, anche se la provocatio è un’anticipazione da respingere. Non è difatti impossibile una partecipazione dei membri della comunità ai giudizi criminali. Sembrano darne conferma fonti archeologiche che attestano la creazione, ai piedi dell’appendice capitolina, di uno spazio riservato alle riunioni del popolo, note comitium (riunioni del popolo), cui si aggiunge la sigla del più antico calendario romano Quandoc Rex Comitiant Fas, la quale mostra che in determinati giorni il re teneva un’assemblea a scopo di giurisdizione.
In origine l’intervento del popolo consisteva non in un voto ma in una semplice prestazione di testimonianza. Il diritto di decidere spettava al re, e l’assemblea si limitava ad assistere al giudizio ed alla consacrazione, o all’immolazione, del colpevole. Con il tempo, il popolo iniziò a prendere parte attivamente alle punizioni dei crimini, dando così luogo a una sfera di repressione penale di competenza esclusiva dell’assemblea cittadina.
Solo nel caso di gravi violazioni del ius sacrum, commesse da membri dei collegi sacerdotali, la persecuzione era esercitabile dal re senza partecipazione del popolo.
Di una partecipazione del popolo alla repressione criminale vi sono tracce anche in materia di reati comuni.
L’esecuzione dell’omicida volontario da parte dei parenti della vittima si compiva davanti all’assemblea delle curie, verosimilmente sul presupposto di un accertamento compiuto dai quaestores parricidi. Essi venivano nominati caso per caso con il compito di:
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inquisire sul crimine
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determinare la responsabilità dell’autore
È facile poi supporre che alla vendetta dei parenti sia subentrato l’intervento repressivo dello Stato, ovvero un processo popolare promosso dei questori dinanzi ai comitia curiata.