La procedura dei giudizi celebrati dinanzi alle assemblee popolari era complessa e farraginosa ed impegnava il magistrato ed il popolo per più giorni. E’ pertanto difficile credere che per ogni processo criminale contro un cittadino fosse necessario radunare il popolo in assemblea, e, in particolare, che anche per giudicare fatti di delinquenza comune fosse richiesta la partecipazione diretta ed effettiva di tutti i cives.
Muovendo da queste considerazioni, qualche autore ha avanzato l’ipotesi che la competenza dei comizi nel campo della giurisdizione criminale fosse meno estesa di quanto le fonti lasciano supporre, e che numerosi reati fossero rimessi alla cognizione di organi diversi dalle assemblee popolari. Ma l’antica regola che il cittadino romano non può essere messo a morte se la sua colpevolezza non è riconosciuta dal popolo, confermata esplicitamente o implicitamente da tutte le fonti, sembra difficilmente conciliabile con tale congettura.
È da osservare che se è vero che col processo comiziale si perseguivano anche fattispecie delittuose comuni, è altrettanto vero che tale processo aveva un’applicazione pratica più ristretta di quanto si possa pensare. Vi erano, in primo luogo, alcuni illeciti come il furto e l’ingiuria che non erano assoggettati a pena pubblica e puniti dallo Stato per mezzo degli organi investiti della giurisdizione criminale, ma sanzionati da una pena di carattere privato, che veniva perseguita dall’offeso mediante il processo civile ordinario. Ciò diminuiva il numero dei giudizi portati davanti comizi del popolo.
C’erano, poi, altre violazioni che, pur costituendo pericolo per sicurezza e tranquillità sociale, non arrivavano a configurare un reato e non davano quindi luogo a un giudizio penale intentato dal magistrato dinanzi all’assemblea popolare, ma una semplice castigatio in via di polizia. Si trattava di illeciti di poco conto, di episodi di piccola delinquenza commessi soprattutto nelle ore notturne, oggetto quindi di amministrazione piuttosto che di giurisdizione, di polizia che di persecuzione criminale.
Il compito di prevenire e di reprimere tali illeciti spettava ai tresviri capitales, i quali dovevano recarsi ogni notte con i loro uomini nelle diverse zone della città per osservare cosa accadeva e ristabilire l’ordine nel caso di eventuale turbativa. Nei casi di maggior pericolo, potevano anche istituire dei posti di blocco e organizzare pattugliamenti dei quartieri. La sicurezza notturna della popolazione di Roma era praticamente nelle loro mani.
I tresviri possedevano, nelle materie connesse con l’ordine pubblico, un limitato potere di coercizione, che consentiva loro di procedere contro i perturbatori della pace sociale con idonee misure afflittive. I mezzi più consueti di cui si servivano erano gli ordinari mezzi di castigatio: il carcere e la frusta.
Vi erano poi altri delitti, come l’omicidio, che per loro gravità non potevano essere considerati semplici violazioni di pubblica sicurezza, e quindi repressi con sanzioni di carattere amministrativo. I tresviri, in questo caso, non operavano come organi di polizia, ma svolgevano un’attività preparatoria del giudizio comiziale:
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ricevevano la denuncia del crimine
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procedevano all’interrogatorio dell’accusato
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disponevano la sua custodia in carcere
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facevano ricercare i mandanti
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organizzavano eventuali confronti
Se in seguito a tali attività raggiungevano il convincimento dell’esistenza di indizi ed argomenti sufficienti per l’instaurazione del giudizio, comunicavano il risultato delle loro indagini al magistrato competente a elevare l’accusa di fronte ai comitia; se invece non venivano riscontrati elementi sufficienti per provocare l’intervento del popolo, avevano la facoltà di archiviare la causa è di rimettere l’accusato in libertà.
I tresviri svolgevano pertanto un’attività di investigazione e di istruttoria sommaria, il cui scopo era quello di evitare l’instaurazione di processi inutili e di preparare materiale vagliato per i processi da instaurare.
Per tutta la durata dell’istruttoria triumvirale, l’imputato restava in carcere in attesa di giudizio. L’unica speranza di uscirne era che un tribuno della plebe intercedesse in suo favore. In tal caso egli poteva considerarsi salvo, poiché aveva la possibilità di evitare la pena mediante il volontario esilio.
Questo benevolo trattamento era riservato ai cittadini delle classi elevate, e in ispecie agli imputati di reati politici. I cittadini di bassa origine e i rei di delitti comuni difficilmente potevano sperare di riottenere la libertà grazie all’intervento tribunizio.
Se i delitti passibili di pena capitale spesso non finivano davanti ai comitia, è difficile credere che delitti di più lieve entità, che comportavano la semplice applicazione di multe, fossero regolarmente sottoposte al giudizio di assemblee popolari.
In età repubblicana non erano inoltre rare le leggi che attribuivano i magistrati, forniti del diritto di multare, la facoltà di scegliere tra una multa discrezionale da richiedersi davanti al popolo e una multa fissa da perseguirsi attraverso un giudizio civile intentato contro l’autore dell’illecito. Questa facoltà di scelta consentiva, per i casi meno gravi o che comunque non avevano destato particolare risonanza nell’opinione pubblica, di evitare le lungaggini del processo comiziale, rimettendo l’accertamento dei fatti alla decisione della causa al giudice privato nominato dal pretore.
Le fonti ci permettono di stabilire che i magistrati che intraprendevano la persecuzione avevano la possibilità di evitare il ricorso ai comizi avvalendosi della procedura per sponsionem. Essi potevano quindi farsi promettere dal reo mediante sponsio il pagamento di una somma, fissata secondo la loro libera estimazione, per l’ipotesi che l’accusa rivoltagli risultasse fondata. A garanzia dell’impegno dovevano intervenire dei praedes. Conclusa la sponsio e rilasciata la garanzia, agivano in personam contro il reo, e il giudice al quale era deferito il giudizio, se i fatti risultarono provati, condannava al pagamento della somma promessa.