CTh 16, 1 De fide catholica, CTh 16, 4 De his, qui super religione contendunt, CTh 16, 11 De religione sarebbero stati i titoli e le rubriche della compilazione di Teodosio dichiaratamente tesi a regolare gli aspetti del reale più vicini alla so­stanza della fede. Anche il secondo titolo (16, 4) che, sembrerebbe prendere in esame solo «i riflessi sociali delle dispute religiose» e non la vera «so­stanza della fides», è tuttavia incontrovertibile come sia profondamente omogeneo agli altri due. È infatti concretamente verifica­bile come i suoi provvedimenti (come quelli raccolti in CTh 16, 1 e 16, 11) possa fornire la misura tangibile dei rapporti esistenti fra imperium e sacerdotium nel pensiero giuridico-culturale di quegli anni.

In questo paragrafo oggetto di analisi sarà CTh 16, 11 De religio­ne.

 

CTh 16, 11, 1. Quotiens de religione agitur, episcopos convenit agitare ; ceteras vero causas, quae ad ordinarios cognitores vel ad usum pubblici iuris pertinent, legibus oportet audiri.

CTh 16, 11, 2. Edictum, quod de unitate per Africanas regiones clementia nostra direxit, per diversa proponi volumus, ut omnibus innotescat dei omnipotentis unam et veram fidem catholicam, quam recta credulitas confitetur, esse retinendam.

CTh 16, 11, 3. Ea, quae circa catholi­cam legem vel olim ordinavit antiquitas vel parentum nostrorum auctoritas religiosa constituit vel nostra serenitas roboravit, novella superstitione submota integra et inviolata custodiri praecipimus.

CTh 16, 11 si presenta temporalmente sfasato rispetto agli anni della compilazione, in particolare esso riporta tre disposizioni dell’imperatore Onorio riguar­danti l’Africa, risalenti ai secc. IV e V (rispettivamente aa. 399, 405 e 410). La legge testimoniata da CTh 16, 11, 1, pur esplicita­mente relativa alla regione transmarina (si trattava infatti di una norma territoriale), interveniva molto chiaramente su un tema generale, quello del vescovo e del suo spazio giurisdizionale. L’assenza del testo dalla presumibile e naturale sede codifica­toria (verosimilmente CTh 1, 27 De episcopali definitione o, eventualmente, CTh 16, 2 De episcopis), rappresenta già di per se un elemento capace di suggerire il perché della collocazione della legge in coda al Codex, ed in apertura del titulus conclusivo.

Così facendo il compilatore avrebbe evidenziato, non l’allora vigente regolamentazio­ne giurisdizionale, quanto l’oggetto della competenza esclusiva del vescovo, ossia la religione cattolica. La vecchia costituzione, grazie alla posizione che le veniva attribuita nel Codice, tendeva senza alcun dubbio a travalicare l’originario e ristretto recinto territoriale; dava soprattutto adeguato rilievo al rapporto privilegiato (ed esclusivo) che il sovrano si limitava a riconoscere esistente fra religione ed autorità pastorale. Lo stesso  Valentiniano III qualche anno dopo, avrebbe richiamato proprio questa norma ponendola in testa ad una novella particolarmente complessa, e ne avrebbe segnalato sia la paternità imperatoria, sia il successivo e significativo accoglimento teodosiano.

Il senso della recezione compilatoria della legge di Ono­rio, molto probabilmente, voleva essere la presa d’atto teodosiana, sul piano dei principi generali, di un dato oggettivo, e in quanto tale il codificatore lo dichiarava estraneo alla propria pote­stà. Lo stato si chiamava così al di fuori dei temi strettamente legati alla lex dei cristiani, essi spettavano alla chiesa che ve­niva correttamente individuata nei singoli Pastori; tutto il resto, il ‘residuo’ ceterae causae del dettato normativo, apparteneva viceversa alla sfera materiale, laica, di evidente competenza dell’impero.

Conferma di tutto ciò proviene dai dati relativi alle due altre disposizioni del titolo. Tuttavia, ciò che al momento rileva di queste due norme non sembra essere tanto il contenuto, pur esso strettamente ancorato agli affari religiosi della terra d’Africa (in epoca tarda periodicamente deva­stata da pericolosi movimenti ereticali o scismatici), quanto la scelta dei brani da estrapolare dai testi originali.

I due provvedimenti non sarebbero stati altro che la risultante frammentata di documenti più estesi: CTh 16, 11, 2 andrebbe integrato sia con le espressioni contenute in 16, 5, 38, sia con quelle in 16, 6, 3; la successiva disposizione, invece, avrebbe il suo referente originale non in un testo normativo d’impronta generale, bensì in un prov­vedimento imperatorio di minore importanza: si sarebbe trattato di una norma proveniente da una singolare manife­stazione formale (preservata dai manoscritti dei Gesta conlatianis Carthaginiensis, a. 411). In entrambi i casi, comunque, le espressioni utilizzate dai compilatori sono perfettamente allineati con la ratio ipotizzata per la prima constitutio.

L’inserimento compilatorio come CTh 16, 11, 2 d’una porzione di un testo ravennate del 405 si sarebbe rivelato utile a Teodosio II per ribadire la propria idea intorno alla fede cattolica. Utilizzando le parole di Onorio, il compilato­re avrebbe chiaramente dichiarato che la religione era e doveva mantenersi come «una et vera fides cathalica»; in quanto tale essa andava dif­fusa e garantita dal solido impegno dello stato. Così pure, le espressioni di Onorio contenute nel successivo documento, quello di CTh 16, 11, 3, si sarebbero mostrate ugualmente utili allo stesso disegno.

Esse erano in grado di sintetizzare la posizione del codificatore nei riguardi della catholica lex: tutto quanto riguardasse la religione cattolica doveva rimanere intatto, e tale si sarebbe dovuto preservare come già da lungo tempo ave­va stabilito l’autorità dei vari sovrani cattolici che fino ad allora si erano susseguiti. Nel segno dell’assoluta ed inten­zionale continuità normativa CTh 16, 11, 3 avrebbe infatti ricordato le autorevoli indicazioni fornite dai predecessori cattolici imperiali, e vi avrebbe posto accanto l’attuale ed altrettanto autorevole “serenità” del principe-co­dificatore.

I prìncipi assolutamente non si arrogavano il compito di defi­nire il contenuto della legge cattolica. L’aspetto interno della religio, la catho­lica lex, rimaneva saldamente ancorato a riferimenti estranei all’impero, l’impe­gno di quest’ultima, già autoritativamente proclamato in passato ed ora adeguatamente riaffermato nel Codice, si sa­rebbe dovuto limitare solo alla conservazione della integrità ed inviolabilità della vera religio anche ai fini superiori della salvaguardia dello stato.

Bisogna comunque stabilire perché tali testi siano stati inseriti nel segmento de religione, questo perché gli argomenti di cui trattano sono riscontrabili in altri segmenti del codice, in particolare le contestazioni eterodosse nella regione africana, nonché gli impegni religio­si assunti dai prìncipi, erano stati tutti variamente già ricordati dai compilatori in altre sezioni del Codex ben più articolate di Cth 16, 11; così come, d’altronde, le stesse questioni relative alla giurisdizione ecclesiastica pure erano state già conside­rate ed analiticamente definite in altra sede. Il loro dettato inoltre era troppo succinto e poco incisivo per essere realmente efficace nella risoluzione dei problemi.

È pensabile che l’intero titolo, in realtà, trovasse una im­mediata e meditata ratio in qualcosa d’altro rispetto alle sin­gole questioni materiali che i commissari, già altrove, aveva­no rinvenute alla base delle norme poi accorpate in altre sedi del Codice. Solo facendo astrazione dall’immediato argomento territoriale che nel 399 aveva suscitato l’emanazione del documento in CTh 16, 11, 1 si può cogliere tutto il peso delle brevi ma importanti affermazioni poste dall’imperatore Onorio, ed ora utilizzate significativamente dalla cancelleria teodosiana.

Ai commissari non premevano gli aspetti concreti e funzionali della competenza del vescovo, bensì l’efficace rappresentazione della sua estraneità ‘tematica’ all’impero. Erano le asserzioni di principio relative alla catholica lex presenti nei singoli testi quelle che avrebbero spinto a raccogliere insieme brani geneticamente alquanto diversi: diversi per l’occasione in cui i provvedimenti stessi erano nati, ma pure diversi per la natura giuridica del docu­mento normativo da cui venivano ora estrapolati

Le poche parole che an­darono a costituire il testo in 16, 11, 3 sarebbero state tratte da una lunga serie di istru­zioni impartite da Onorio ad un alto ed importante dignita­rio (Flavio Marcellino), nell’ottobre dell’anno 410, affinché costui conoscesse bene la volontà imperiale sui modi per condurre una con­ferenza della chiesa africana centrata sul pericoloso scisma donatista; l’anno successivo, a Cartagine, il documento sa­rebbe stato letto sia in apertura delle sessioni della conferen­za, sia nel corso della terza seduta degli stessi lavori.

Nonostante per tali istruzioni si sia autorevolmente pensato ad un mandato imperia­le, va tuttavia ricordato come altrove, negli Atti della con­ferenza, si accennasse al documento, indifferentemente, come ad una constitutio, una lex, un edictum, una principalis sanctio, un pragmaticum rescriptum, un rescriptum, un praeceptum. Inoltre pro­prio nel conferire al suo funzionario l’incarico di appianare i forti contrasti sorti fra cattolici e donatisti, il principe si sa­rebbe rifatto con tutta evidenza a taluni mandata precedenti rinviando per certi aspetti materiali del proprio volere.

Il documento, inoltre, ab origine appariva moti­vato non da iniziativa personale bensì da una supplicatio della parte cattolica africana particolarmente interessata all’incontro ed alla risoluzione del contrasto coi donatisti. Visto in tal modo, il testo in questione dovrebbe leggersi come pragmaticum rescriptum, nel caso di specie il documento è stato definito come «un provvedimento in cui l’imperatore dava delle istruzioni ad un funzionario, rispondendo con ciò indi­rettamente alla richiesta di un privato».

Di questo documento appare interessante solo una minima parte che, pur conosciuta dai compilatori, per qualche motivo, non è stata preservata nel breve dettato del Codex. Dai Gesta cartaginesi si apprende anzitutto come ogni preoccupazione imperiale fosse stata guidata unicamente dalla catholica lex, al fine di “far rispettare il vero culto di Dio da parte delle fedeli popolazioni dell’impero”.

Tenendo conto di ciò, appare evidente come fosse naturale che si facesse esplicito richia­mo proprio alla catholica lex anche nell’altra breve sezione del testo, quella poi trascelta dai compilatori di Teodosio e sistemata nel Codice con qualche minima ma significativa variante. Porzione che appariva, fra le tante possibili del documento originale, come quella sicuramente più efficace sul piano politico; in essa, da un lato ci si riallacciava alle disposizioni datae sulla religione dai precedenti imperatori, dall’altro si ordinava una generale difesa di tutte le norme fino ad allora disposte intorno alla catholica lex.

Inoltre, proprio in vista dell’uti­lizzazione compilatoria del vecchio dettato legislativo, per il tramite di un determinante scambio di parole si sarebbe sensibilmente allargata la portata della disposizione impera­toria del 410: al termine subreptio i commissari teo­dosiani avrebbero pensato di sostituire la locuzione su­perstitio. Questa si mostrava infatti capace di ben altro ed ampio significato giuridicamente rilevante in relazione alla consolidata idea di ortodossia del Credo.

Per questa discordanza letterale fra il luogo degli Atti ecclesiastici ed il brano inserito nel Codice è stata anche avanzata l’ipotesi della eventuale esi­stenza di un vero e proprio errore nella tradizione mano­scritta dei Gesta conlationis Carthaginiensis. In questo modo si comprovereb­be l’originaria autenticità della locuzione superstitio menzionata nell’identica proposizione attestata dal Teodosiano. Viceversa per ragioni relative alla mera analisi del testo, è altamente probabile un intervento compilatorio sul testo originale preservato nei Gesta. In primo luogo è da dire che il termine in questione non sia presente solo nei Gesta ma anche in altro documento precedente, nel quale si rileva la stessa locuzione ‘subreptio’, anche stavolta inserita in una proposizione sostanzial­mente analoga a quella successiva, la quale per ciò stesso ne trarrebbe conferma immediata.

Inoltre il termine ‘superstitio’, si ritrova più volte nel testo in questione, e può sempre leggersi nella medesima accezione corrispondente a quella teodosiana di ‘eresia’, che presenterebbe un ampio significato, escludendo in tal modo il senso in­tenzionale e mirato cui aveva voluto richiamarsi Onorio, proprio nella frase in Gesta 1, 4, 54, nel parlare di una «novella subreptio submota».

La correzione compilatoria del più antico dettato norma­tivo, pur comportando il rischio di creare una sorta di ine­sattezza sul piano storico (poiché essa continuava a defi­nire novella una superstitio che tale più non era), serviva comunque sia per allargare in senso generale l’impegno codificatorio a difesa della catholica lex, sia a por­re significativamente Teodosio II in coda ad un’unica teoria di legislatori tutti perfettamente coerenti perché tutti perse­cutori della eterodossia religiosa. Inserire la modifica nel Codice, avrebbe garantito il superamento della concreta e sconosciuta situazione cui Onorio aveva pensato nel 410; quella circostanza che allora gli aveva fatto accennare ad un ennesimo attentato (subreptio) alla fede cattolica (in relazione a ciò è lecito ipotizzare che il sovrano avesse voluto riferirsi alle pericolose idee non ortodosse sia di Pelagio, sia di Celestio, rifugiatosi proprio a Cartagine nel 410).

La sostituzione ampliava gli orizzonti del vecchio testo normativo, regolando così qualsiasi futura difesa della legge cattolica nei confronti di ogni eventuale superstitio.

Non è improbabile che l’acquisizione codificatoria di questo breve testo legislativo (dalla circoscritta valenza originaria) fosse motivata, nel disegno teodosiano, dalla volontà di chiudere il libro XVI del Codice riaffermando inequivocabilmente gli impegni imperatori a sostegno della vera reli­gio.

In definitiva, la ratio dei testi accolti sot­to la rubrica De religione sembra essere stata la stessa, anche se ciascuno di essi riguardava questioni diverse, l’idea che (grazie allo loro organi­ca successione) traspariva ora sul rapporto imperium-catholica lex si mostrava coerente e concludente, rappresentando nel modo migliore l’interesse imperatorio alla difesa della religione cattolica.

La vera religio era stata compiutamente ‘definita’ altro in altri numerosi tratti dello stesso libro teodosiano. Essa mostrava d’essere divenuta realmente l’idea-guida di una larga fetta della presenza nel sociale del ius imperatorio.

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