Acquisito il dato che il compilatore teodosiano lasciasse esclusivamente al vescovo la responsabilità della lettura autentica dei canoni ecclesiastici, non è possibile considerare in un brano di Teodosio II del tutto casuale l’esplicita menzione delle regole ecclesiastiche: i «canones pristinos ecclesiasticos» di cui si parla nella legge in CTh 16, 2, 45. Pur dovendo riconoscere la ragionevole osservazione avanzata in dottrina, che ha rilevato come nelle leggi più recenti [fra tutte quelle del Teodosiano] vi fosse una maggiore precisazione e specificazione nel riferimento all’ordinamento ecclesiastico, l’ultimo atteggiamento normativo di Teodosio acquista un particolare valore. Alcune espressioni legislative utilizzate da Teodosio, riflettendo sul sempre maggiore peso della chiesa, avrebbero mutato qualcosa dei propri tratti formali. Basta che si pensi – prendendo ad oggetto proprio la lettera del brano in CTh 16, 2, 45 – a come i canones menzionati nel 421, e poi così isolatamente (ed intenzionalmente) mantenuti nel successivo dettato compilatorio, fossero di fatto sconosciuti al testo delle altre leggi ‘religiose’ presenti nel Codice; essi, invece, più tardi sarebbero divenuti una costante all’interno della legislazione giustinianea.
Un discorso ampio e generale centrato sui canoni conciliari, sarebbe ugualmente rinvenibile presso Teodosio II, in un testo del 430. In occasione del sinodo ecumenico efesino, il sovrano avrebbe sottolineato l’essenziale rilevanza del fatto che i Padri conciliari “cancellassero i dubbi sorti intorno ai canoni ecclesiastici”. Nell’epistula imperatoria, indirizzata ai Pastori di Egitto e in particolare a Cirillo (il potente vescovo d’Alessandria), si invitavano gli ecclesiastici ad operare in tal modo non solo al fine di “stabilire la giusta pietà verso Dio”, ma anche “a vantaggio di quegli affari pubblici” legati agli affari religiosi. La missiva si apriva proprio con l’affermazione del nesso esistente fra le sorti dello stato ed il più intimo atteggiamento religioso di ognuno, principe e sudditi, nei confronti della divinità. Da queste affermazioni il sovrano invitava il “consiglio sacerdotale” di Efeso a stabilire canoni certi, favorendo con ciò i connessi pubblici affari.
Anche in altre parti sparse del Teodosiano possono rilevarsi cenni fatti dall’imperatore ai sinodi episcopali e alle loro decisioni sulla fede (mai parlando esplicitamente, però, di ‘canoni’). Ne sono testimonianza i significativi anche se scarni riferimenti alla Christiana fides di ‘nicena memoria’ presenti in CTh 16, 5, 6 e 16, 1, 3 (constitutiones, non casualmente, del 381: lo stesso anno del concilio ecumenico di Nicea), ed ancor più la rilevante menzione dei decreta conciliari antinestoriani (cioè quelli di Efeso del 431) contenuta nella legge di Teodosio II in CTh 16, 5, 66. Va detto inoltre che, rispetto a questi pochi ma precisi riferimenti normativi, le formulazioni testuali presenti nel Codice su materia religiosa sarebbero spesso generiche e vaghe; le cancellerie avrebbero impiegato una genericità espressiva pure quando sarebbe invece occorsa una maggiore chiarezza espositiva (come, per esempio, nei testi concentrati nel De haereticis) al fine di rendere identificabile in modo chiaro l’ortodossia catholica rispetto a quelle credenze, che si intendeva reprimere ma che avrebbero dovuto essere considerate eterodosse.
In apparente contrasto con altre parti del codice, nel testo di CTh 16, 5, 6 (divenuto più tardi CI, 1, 1, 2) sembrerebbe possibile rinvenire, all’interno del più vasto discorso imperatorio antieterodosso, una vera e propria formulazione dogmatica (qui omnipotentem deum et Christum filium dei uno nomine confitetur, deum de deo, lumen ex lumine: qui spiritum sancfum, quem ex summo rerum parente speramus et accipimus), e questo in dissonanza rispetto ai modi già altrove testimoniati come, per esempio, nella statuizione in CTh 16, 1, 2, dove per il Simbolo ortodosso il principe si era riferito ai Pastori Damaso e Pietro; si sarebbe trattato, secondo qualcuno, di una scelta riguardante la catholica lex che potrebbe far pensare ad un legislatore ormai formalmente astratto dal puro e semplice orientamento episcopale. Tuttavia non sembra che questa legge del 381 possa considerarsi dissonante dai frequenti riferimenti episcopali fatti frequentemente nel codice; seppure è innegabile che in questa legge il legislatore non avesse escluso la pronuncia di parole atte a manifestare in via esplicita una parte del Simbolo cattolico, è ugualmente vero che egli aveva pur sempre menzionato gli episcopi ortodossi nel tratto conclusivo (ut cunctis orthodoxis episcopis, qui Nicaenam fidem tenent, catholicae ecclesiae toto orbe reddantur); proprio con essi, al di là della incompleta esposizione del Simbolo (per questo canonicamente inefficace), si era chiusa la serie delle disposizioni dettate contro le sette ereticali. Neanche la formula del Credo parzialmente trascritta in CTh 16, 5, 6 aveva implicato una personale compromissione teologica da parte dell’imperatore, in quanto essa non costituiva affatto una sostanziale novità trattandosi della nota formula stabilita nel sinodo di Nicea nel 325.
Non può comunque trascurarsi l’ipotesi avanzata da Archi, secondo cui proprio i «dubbi sorti alle autorità civili per l’applicazione concreta di quanto disposto da CTh 16, 5, 6» avrebbero sollecitato, nell’estate dello stesso 381, l’emanazione di quell’altra constitutio che poi sarebbe finita in CTh 16, 1, 3. In sostanza, quella sorta di troppo rapida expositio fidei che da parte del legislatore si era voluta concentrare nel primo provvedimento, anziché rendere chiaro chi potessero essere gli oppositori del credo niceno contro i quali la norma stessa andava a scagliarsi, molto probabilmente aveva complicato le cose per i destinatari ed esecutori della legge. Era quindi, sembrato opportuno da parte della cancelleria indicare ai sudditi e ai burocrati periferici, alcuni precisi cardini legislativi al fine di stabilire con rapidità chi fosse da considerare eretico e chi, invece, cattolico-ortodosso sulla stessa linea del legislatore. Da qui, perciò, quella opzione ‘teologicamente soggettiva’, che avrebbe individuato negli undici vescovi elencati in CTh 16, 1, 3 i soli arbitri della ortodossia catholica.
Tale orientamento legislativo sarebbe stato confermato di nuovo dalla più tarda constitutio di Arcadio, in seguito accolta in CTh 16, 4, 6. Pure in questa legge, successiva a quella in CTh 16, 5, 6, ci si sarebbe nuovamente rivolti ai vescovi indicandoli individualmente: Arsacio, Teofilo e Porfirio; anche stavolta i vescovi sarebbero stati gli unici riferimenti per poter decifrare con esattezza l’ortodossia del Credo professato da alcuni sudditi particolarmente attivi sul piano della credenza religiosa.
Quanto alla personale produzione di Teodosio II deve considerarsi l’esplicito richiamo documentale ai decreta conciliari fatto in CTh 16, 5, 66. In quest’ultima constitutio il richiamo alle decisioni collegiali prese dai vescovi riuniti nel sinodo non solo avrebbe chiuso l’ultima espressione che si rinviene nel Codice Teodosiano sull’argomento de fide, ma sarebbe pure servito, nel tratto conclusivo dello specifico titolo codificatorio De haereticis, a supportare una serie di pesanti sanzioni che venivano minacciate contro i nestoriani (condannati di eresia dal concilio di Efeso del 431), tra cui la definitiva e rovinosa publicatio bonorum. Nella misura in cui tutte queste prescrizioni e ‘minacce’ teodosiane risultavano radicate nei disposti del sinodo efesino, non si faceva altro che connotare questa serie di norme in maniera del tutto diversa rispetto ad altre leggi del codice, e questo non solo per il contenuto precettivo della constitutio (molto più attenta persino agli eventuali rischi della didattica eterodossa), ma in particolar modo per la ratio ‘conciliare’, quasi dimenticando le singole personalità episcopali; tutto questo avrebbe rappresentato un consistente precedente per tutta la successiva legislazione religiosa.
Gli Atti conciliari di Efeso contenevano anche la contemporanea costituzione di condanna all’esilio data da Teodosio II contro l’eretico Nestorio (a. 436). Pure in questo documento, il principe avrebbe sostanziosamente motivato la sanzione che allora andava ad irrogare, fondandola sugli stretti legami esistenti tra la sicurezza della santissima religione e quella dei pubblici affari. In particolare “l’osservanza della constitutio, grazie all’ottenuto rispetto della fede nelle anime degli uomini, e fondando sulla religione ortodossa, avrebbe fatto fiorire la felicità del regno intero”.
Proprio in questi ultimi provvedimenti teodosiani (seguiti poi dal testo riguardante il concilio efesino del 449) si deve scorgere il primo decisivo tratto di passaggio fra due diversi orientamenti del tardo ius principale sull’argomento della catholica fides: dalla considerazione (quale esclusivo riferimento normativo) del ‘momento episcopale’ singolarmente inteso, alla piena ed altrettanto esclusiva attenzione del concilio ecumenico e dei suoi deliberati canoni.