In senso lato, il principio del contraddittorio, si riassume nel postulato secondo il quale la decisione del giudice, affinché possa definirsi processualmente giusta, deve essere adottata audita altera parte, vale a dire soltanto dopo che siano state ascoltate le ragioni di tutte le parti in contrasto. In questa prospettiva, possiamo, quindi, affermare che il contraddittorio si atteggia specificamente come un diritto delle parti al servizio del giudice.
Tuttavia, già durante la vigenza dell’ abrogato codice Rocco del 1930, la dottrina si era resa conto che la nozione tradizionale di contraddittorio, inteso come mero diritto delle parti ad essere sentite prima della decisione del giudice, non era esauriente, perché non si consentiva una completa esplicazione del diritto di difesa delle parti: si affermò, così, che la nozione di contraddittorio dovesse identificarsi, in senso stretto, nella partecipazione contemporanea e contrapposta di tutte le parti al processo. Ovviamente, tale enunciato non poteva trovare effettiva applicazione nel modello inquisitorio accolto dal codice Rocco, in quanto in quel sistema (essendo la prova assunta in segreto dal pubblico ministero nella fase istruttoria) la partecipazione contemporanea e contrapposta delle parti al processo si verificava solo in fase dibattimentale e si risolveva essenzialmente nell’ analisi oggettiva di prove già formate ed acquisite al fascicolo processuale del giudice chiamato a decidere (si trattava, dunque, di un contraddittorio fittizio).
In questa prospettiva, allora, il legislatore del 1988, nel costruire il sistema processuale in conformità al modello accusatorio, aveva attribuito al principio del contraddittorio un ruolo più pregnante, conferendogli, appunto, la funzione di regola per la formazione della prova, che (salvo rare eccezioni) doveva realizzarsi in dibattimento, alla presenza del giudice terzo ed imparziale. Tuttavia, nei primi anni ’90, la struttura appena delineata ha subìto sensibili modifiche; il legislatore, infatti, a causa delle sopravvenute esigenze di lotta alla criminalità organizzata (omicidi: Falcone e Borsellino; stagione di Tangentopoli), è stato indotto, su pressione della Consulta, a modificare radicalmente orientamento.
La Corte cost., infatti, dichiarando (con sent. 24/92), l’ illegittimità costituzionale dell’ art. 195, co. 4 c.p.p., ha previsto la possibilità per gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria di deporre, in dibattimento, sul contenuto delle dichiarazioni ricevute, nella fase procedimentale, dalle persone informate sui fatti (possibili testimoni in dibattimento); su questa scia, sempre la Consulta, con le sentt. 254 e 255/92, ed il legislatore, con L. 356/92, hanno inciso in maniera significativa sulla normativa contenuta negli artt. 500, 503 e 513 c.p.p., prevedendo la possibilità di utilizzare, come prova in dibattimento, le dichiarazioni rese, nella fase procedimentale, dal testimone, ex art. 500, dall’ imputato, ex art. 503 (qualora, questi, in dibattimento avessero reso dichiarazioni contrastanti con quelle in precedenza rese) ovvero dall’ imputato in procedimento connesso contro un altro imputato, ex art. 513 (qualora questi, in dibattimento, si fosse avvalso della facoltà di non rispondere).
In tal modo, veniva esplicitamente tradito il principio del contraddittorio nella formazione della prova, ritenuto dalla stessa Corte costituzionale subordinato a quelli di ragionevolezza e di non dispersione delle prove e comunque non riconosciuto espressamente dalla Costituzione.
A questo punto, il legislatore, nel 1997, allo scopo di recuperare le garanzie perdute cinque anni prima, ha deciso di intervenire nuovamente, novellando (con L. 267/97) l’ art. 513 c.p.p.; con tale modifica normativa è stato ribaltato il principio espresso dalla Corte cost. nel 1992 e fatto proprio dal legislatore in quell’ anno: è stato stabilito, infatti, che se l’ imputato (o l’ imputato in procedimento connesso) si fosse avvalso, in dibattimento, della facoltà di non rispondere, invocando il diritto al silenzio (che gli spettava in quanto imputato), le dichiarazioni rese al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria (nella fase procedimentale) non potevano essere utilizzate come prova, a meno che non vi fosse stato il consenso delle parti.
Questo nuovo indirizzo, tuttavia, è stato immediatamente intercettato dalla Consulta, la quale, con sent. 361/98, invocando nuovamente i princìpi di ragionevolezza e di non dispersione delle prove, ha dichiarato l’ illegittimità costituzionale dell’ art. 513 c.p.p., sottolineando l’ irragionevolezza del diverso regime giuridico cui veniva sottoposta, da parte del legislatore, la prova dichiarativa: infatti, per la prova testimoniale, ex art. 500 c.p.p., le dichiarazioni rese nella fase investigativa potevano essere pienamente utilizzate, mentre per le dichiarazioni rese dall’ imputato (o dall’ imputato in procedimento connesso), ex art. 513 c.p.p., l’ utilizzabilità era condizionata al consenso delle parti.
Il nuovo contesto normativo delineato dalla Corte, questa volta, ha suggerito al legislatore di percorrere, nel 1999, la strada della modifica costituzionale: l’ idea, più precisamente è stata quella di evidenziare espressamente nella Carta costituzionale, all’ art. 111, il principio del contraddittorio, ma non come mera esplicazione del diritto di difesa, bensì come regola indispensabile per la realizzazione dei princìpi del cd. giusto processo (enunciati nell’ art. 6 Conv. eur. dir. uomo, stipulata nel 1950) e come tale, inerente alla giurisdizione (alla disciplina del cd. giusto processo è stata, poi, data attuazione con L. 63/01).
La nuova disposizione costituzionale stabilisce, al co. 2, che ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale: in tal modo, si eleva il principio del contraddittorio, in senso lato, a regola imprescindibile per la giurisdizione (non solo penale).
Con riferimento specifico al processo penale, sono stati, invece, individuati due profili del contraddittorio. Il primo profilo riguarda l’ aspetto soggettivo (riferito alle parti ed in particolare all’ imputato): l’ art. 111, 3° co. Cost. disciplina, infatti, il diritto dell’ imputato di svolgere un ruolo attivo di difesa in tutte le fasi del processo mediante l’ esercizio del diritto alla prova (da esercitarsi nelle medesime condizioni dell’ accusa).
Il secondo profilo attribuisce, invece, al principio in esame la funzione di regola per la formazione della prova nel processo penale: stabilisce, infatti, la prima parte dell’ art. 111, 4° co. Cost., che il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova: in tal modo, il contraddittorio, in senso stretto (o oggettivo), assurge a vera e propria regola per la formazione della prova, peraltro accompagnata da una specifica regola di valutazione, posta a tutela dell’ effettivo esercizio del diritto al contraddittorio da parte dell’ imputato: infatti, la seconda parte del 4° co. dell’ art. 111 Cost. stabilisce che la colpevolezza dell’ imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’ interrogatorio dell’ imputato o del suo difensore (il legislatore costituente, in altri termini, ha inteso precisare che il principio del contraddittorio non può ritenersi rispettato se all’ imputato non si dà la possibilità di svolgere un ruolo attivo nella fase di formazione della prova).
Il 5° co. dell’ art. 111 Cost. individua, tuttavia, tre specifiche deroghe all’ operatività del principio del contraddittorio nella formazione della prova: la prima eccezione riguarda il caso in cui l’ imputato accetti che la decisione del giudice sia adottata sulla base di elementi di prova formatisi in assenza di contraddittorio (occorre sottolineare, però, che nonostante il consenso dell’ imputato, il giudice può sempre avvertire l’ esigenza di procedere alla formazione della prova in sua presenza, nel contraddittorio delle parti).
La seconda deroga si riferisce, invece, ai casi in cui per cause oggettive (indipendenti, cioè dalla volontà di taluno) non sia più possibile l’ applicazione della regola generale (si pensi, ad es., al caso di un testimone che, dopo aver reso una dichiarazione nella fase delle indagini preliminari, in qualità di persona informata sui fatti, abbia avuto un gravissimo incidente con la perdita totale della memoria). Da ciò si evince, quindi, che il recupero degli atti formatisi in assenza di contraddittorio sarà possibile solo se l’ impossibilità della ripetizione non era prevedibile al momento di originaria formazione (se, infatti, l’ impossibilità è prevedibile, il legislatore dà la possibilità di formare anticipatamente la prova, mediante l’ istituto dell’ incidente probatorio: si pensi, ad es., al caso di una testimonianza assunta nel corso delle indagini, perché vi è fondato motivo di ritenere che la persona informata non potrà deporre in dibattimento, a causa di un male incurabile).
La terza eccezione si riferisce al caso in cui l’ impossibilità di procedere alla formazione della prova in contraddittorio dipenda da provata condotta illecita: si tratta, in particolare, di azioni illecite (costituenti reato) che possono essere rivolte (dall’ imputato, dal pubblico ministero, dalla polizia giudiziaria o dalla persona offesa) nei confronti di un soggetto che ha già reso precedenti dichiarazioni, allo scopo di condizionare la deposizione, che costui sia chiamato ad effettuare in dibattimento (si pensi, ad es., al testimone che venga sottoposto a minaccia, al fine di non farlo deporre in dibattimento).