La novità più importante introdotta dalla L. 66 del 96 è costituita dall’introduzione di un titolo di reato unitario, la violenza sessuale (art. 609 bis), al posto delle due fattispecie violenza carnale e atti di libidine violenti. Ciò è stato motivato con due ordini di giustificazioni:

1. sottrarre le vittime allo stillicidio di domande e accertamenti intimi per dirimere il dubbio sulla riconducibilità del fatto all’art. 519 o all’art. 521

2. non avrebbe avuto senso distinguere tra condotte che incidono sullo stesso oggetto di tutela.

Nessuna delle due motivazioni si mostra però del tutto convincente.

Quanto al primo punto, la tutela della privacy, è improbabile che il giudice sulla base dell’attuale testo dell’art. 609 bis possa esimersi dal ricostruire la materialità dell’aggressione violenta in tutti i suoi dettagli. È al contrario evidente che il regime sanzionatorio unificato accentua l’esigenza di un puntuale accertamento, per evitare di irrogare sanzioni sproporzionate all’entità del fatto.

Il secondo ordine di motivi appare confuso e di dubbia compatibilità con i principi che presiedono ad un corretto intervento del legislatore penale.

In sostanza, la riforma attuata pecca di una perdita di tenuta sul piano delle garanzie. Lo stesso concetto di atto sessuale ripropone alcune incertezze. Mentre l’art. 521 parlava di atti di libidine violenti “commessi su taluno”, l’attuale art. 609 bis, con riferimento all’atto sessuale, parla di “costringere taluno a compiere o subire atti sessuali”. Da qui il problema della configurabilità del reato nel caso in cui la vittima sia costretta con violenza o minaccia o abuso d’autorità a subire atti esibizionistici o gesti richiamanti la sfera sessuale. Nel complesso dunque la riforma non è stata esente da dubbi circa la sua conformità all’art. 25 Cost., II comma, per quello che riguarda il principio di determinatezza.

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