I delitti sessuali, introdotti dalla l. n. 66 del 1996, ruotano tutti intorno alla nuova e onnicomprensiva categoria degli atti sessuali, nata dall’unificazione delle due distinte precedenti categorie della congiunzione carnale e degli atti di libidine. La definizione di atti sessuali pone un duplice problema:
- se la sessualità dell’atto debba intendersi in senso oggettivo o soggettivo. Tradizionalmente gli atti sessuali venivano intesi in senso soggettivo, dovendo essi orientarsi all’eccitamento o allo sfogo dell’impulso libidinoso. Quello che decideva della sessualità o meno dell’atto, quindi, era il movente, l’interiore atteggiamento psichico dell’agente, accertabile attraverso le significative circostanze esterne (es. modalità, parti del corpo interessate). Attualmente, al contrario, gli atti sessuali sono più correttamente intesi in senso oggettivo, ossia con riferimento alla natura oggettivamente sessuale dell’atto in sé considerato, da determinarsi, questa, secondo le indicazioni delle scienze medico-psicologiche, nonché delle scienze antropologico-sociologiche. A tale obiettivizzazione sospingono varie cause:
- il mutamento di oggettività giuridica dalla moralità pubblica e buon costume alla libertà morale (sessuale), che ha spostato il baricentro dei delitti sessuali dall’offesa alla morale sessuale all’offesa alla libertà di autodeterminazione;
- la sostituzione della formula atti di libidine con quella di atti sessuali, che, se nei più immediati intenti del legislatore è servita soprattutto per adeguare il linguaggio al più moderno lessico, in verità ha un significato ben più pregnante: la sessualità degli atti, infatti, è coerentemente espressiva di un nuovo sistema penale incentrato sulla tutela della libertà sessuale;
- l’interpretazione, secondo il principio di offensività, degli atti sessuali in funzione della loro obiettiva attitudine offensiva della libertà sessuale, a prescindere dagli atteggiamenti interiori del reo;
- l’esigenza di tassatività giuridica, che si oppone sia ai soggettivismi del reo sia ai soggettivismi della vittima;
- l’inadeguatezza delle suddette definizioni soggettive rispetto, comunque, agli atti sessuali commessi in presenza della vittima (es. corruzione di minorenne).
Atti obiettivamente sessuali, quindi, sono tutti e soltanto gli atti di contatto fisico, al nudo o meno, con le zone erogene dell’altrui o del proprio corpo, e pertanto consistenti:
- nel coito (totale o parziale, con o senza soddisfazione dell’istinto libidinoso) vaginale, anale, orale, tribalistico, inter femora o inter sina;
- nell’autoerotismo imposto alla vittima;
- nei toccamenti, accarezzamenti e baciamenti in tali zone;
- se gli atti sessuali si identifichino o meno con la serie di atti prima distribuiti sotto gli artt. 619 (congiunzione carnale) e 621 (atti di libidine). Alla luce di quanto detto, la nozione di atti sessuali non solo non è più ampia di tali fattispecie, ma non è nemmeno identica a quella di atti di libidine. Essa, al contrario, risulta essere più ristretta, perché porta ad escludere una serie di atti (cosiddetti bagatellari), intrinsecamente libidinosi ma penalmente non sessuali nel senso sopracitato (es. piedino, pizzicotto). A tale restrizione sospingono varie cause:
- il principio di proporzione giuridica tra gravità della pena e gravità del fatto, perché esso pur sempre stride innanzi a una pena minima (concessa l’attenuante dell’art. 609 bis co. 3) di anni 1 e 8 mesi;
- la non rispondenza dell’attenuante dei casi di minore gravità alla fattispecie autonoma e residuale di molestie sessuali, prevista nella maggior parte dei progetti di legge presentati e poi non introdotta nella riforma.