Occorre chiedersi quali limiti al potere dello Stato territoriale derivino dal principio del non intervento negli affari di un altro Stato. Tale principio della non ingerenza negli affari altrui, tuttavia, è venuto a poco a poco perdendo la sua autonoma sfera di applicazione con l’affermarsi di altre e più pregnanti regole generali, le quali hanno assorbito questa fattispecie (es. divieto della minaccia o dell’uso della forza).
Per quanto riguarda le possibili applicazioni del principio in esame, vengono in rilievo gli interventi dello Stato diretti a condizionare le scelte politiche interne ed internazionali di un altro Stato. Secondo la Corte internazionale di Giustizia, non è sufficiente a concretare un’ipotesi di illecito intervento negli affari altrui l’interruzione di un programma di aiuto allo sviluppo o la riduzione o il divieto delle importazioni dal Paese che si vuole colpire. A detta del Conforti, tuttavia, qualora queste misure abbiano come unico scopo quello di influire sulle scelte dello Stato straniero, essere devono considerarsi vietate. Resta da chiedersi se dal principio della non ingerenza derivi l’obbligo di impedire che nel proprio territorio si tengano comportamenti che possano turbare l’ordine pubblico e l’indisturbato svolgersi della vita nell’ambito di Stati stranieri. Sempre a detta del Conforti, una regola generale che copra simili attività non sembra ricostruibile. Forse l’unica regola consuetudinaria di cui possa affermarsi l’esistenza è quella che impone di vietare la preparazione di atti di terrorismo diretti contro altri Stati.
 Il problema più rilevante al riguardo è se gli Stati stranieri siano sottoponibili alla giurisdizione civile dello Stato territoriale. Nel secolo scorso la teoria universalmente accolta in merito al problema del trattamento degli Stati stranieri era quella favorevole all’immunità assoluta degli Stati dalla giurisdizione civile. Sono state la giurisprudenza italiana e belga a dare inizio ad un’inversione di tendenza che ha poi portato alla revisione della regola e all’elaborazione della teoria dell’immunità relativa o ristretta, secondo la quale l’esenzione degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile è limitata agli atti iure imperii (funzioni pubbliche statali) e non si estende invece agli atti iure gestionis o iure privatorum.
La distinzione tra iure imperii e iure gestionis non è sempre facile da applicare ai singoli casi concreti. In questo ambito, quindi, il diritto consuetudinario lascia ampio margine all’interprete. In caso di dubbio, comunque, si ritiene che debba concludersi a favore dell’immunità anziché a favore della sottoposizione dello Stato alla giurisdizione, la seconda costituendo una sorta di eccezione alla prima. Occorre citare almeno due campi nei quali viene in rilievo il problema dell’immunità :
- le controversie di lavoro: la distinzione tra atti iure gestionis e iure privatorumnon fu escogitata in relazione a detti rapporti e quindi la sua applicazione a questi ultimi deve essere criticata. Risulta pertanto da apprezzare un cambiamento di tendenza che si va affermando nella prassi più recente e che consiste per l’appunto nel ricercare soluzioni più appropriate alla sostanza della materia da disciplinare (es. Convenzione europea sull’immunità degli Stati). Sembra a questo punto da criticare l’art. 11 della Convenzione delle Nazioni Unite, il quale:
- da un lato prevede che l’immunità non sia invocabile se si tratti di lavoratori che abbiano la cittadinanza dello Stato locale o risiedano abitualmente nel suo territorio;
- dall’altro fa rivivere la distinzione tra rapporti iure imperii e rapporti iure gestionis, stabilendo che la giurisdizione non possa comunque esercitarsi quando il lavoratore sia stato assunto per svolgere particolari funzioni nell’esercizio del potere di governo ;
- le violazioni dei diritti umani: al riguardo ci si chiede se l’immunità sia invocabile dallo Stato citato in giudizio per le conseguenze civilistiche di violazioni gravi dei diritti umani. La prassi internazionale è decisamente orientata in tal senso, ma da alcune sue recenti manifestazioni può dedursi un’inversione di tendenza contro l’immunità (consuetudine in formazione).
 L’immunità della giurisdizione civile viene anche riconosciuta agli enti territoriali e alle altre persone giuridiche pubbliche. Questa è un’ulteriore prova del fatto che, a formare la persona dello Stato dal punto di vista del diritto internazionale, concorrono tutti coloro che esercitano il potere di governo.
 A parte i limiti della giurisdizione civile fin qui incontrati, nessun altro limite può essere delineato per la giurisdizione dello Stato territoriale in tema di trattamento di Stati stranieri. Risulta completamente priva di fondamento nel diritto internazionale la dottrina dell’Act of State, dottrina secondo cui una Corte interna non potrebbe rifiutarsi di applicare una legge o un altro atto straniero in quanto contrario al diritto internazionale e neppure in quanto illegittimamente adottato alla stregua dei principi del suo ordinamento di origine. Più che una dottrina imposta dal diritto internazionale, essa è considerata una sorta di principio di autolimitazione da parte delle corti, autolimitazione giustificata dalla necessità di non creare imbarazzo al proprio Governo dei rapporti con i Governi stranieri.