A partire dalla seconda guerra mondiale, la dottrina dei diritti umani hanno rapidamente sovvertito gli assetti normativi della vecchia Comunità internazionale, imponendo a ciascuno Stato di rispettare al proprio interno determinati nono solo gli stranieri ma anche i propri cittadini, erodendo in tal modo quella sfera intima della sovranità rispetto alla quale lo Stato ha sempre goduto della più ampia libertà.
La protezione dei diritti dell’uomo, rappresentando un interesse proprio della Comunità internazionale, costituisce pertanto una materia ormai esclusa dalle competenze dello Stato. Gli Stati insomma sono liberi di gestire come meglio credono la comunità umana, nei limiti del rispetto dei diritti fondamentali degli individui presenti sul territorio.
Uno degli obblighi erga omnes che fa parte del diritto cogente (cioè del nucleo di principi che non possono essere derogati da trattati o da norme consuetudinarie ad essi contrari ) a carico dello Stato è il principio che vieta la commissione di gross violations, ossia le violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Lo Stato che non rispetta tale principio commette un crimine internazionale, da ciò ne consegue che tutti gli stati sono legittimati a reagire uti universi contro l’offensore.
La seconda condizione di legittimità dell’intervento collettivo è rappresentato da motivazioni umanitarie, infatti l’esistenza di massicce e sistematiche violazioni dei diritti umani su larga scala, rappresenta il presupposto indispensabile per poter reagire impiegando la forza armata. L’azione degli Stati dovrebbe limitarsi a porre rimedio a gravi violazioni dei diritti dell’uomo, ciò comporta la durata limitata dell’operazione e quindi il ritiro delle truppe al termine dell’intervento umanitario.
Un ulteriore condizione di legittimità dell’intervento armato, si ha quando il Consiglio di sicurezza abbia esaurito ogni possibile soluzione pacifica e diplomatica alla controversia, ed il ricorso all’intervento armato non presenta alcuna alternativa rispetto alla proseguimento dei massacri da parte dello Stato responsabile.
Ma a causa della contrapposizione fra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza, non si è mai proceduto alla conclusione di accordi speciali (previsti dall’art. 43 della Carta) relativi alla messa a disposizione del Consiglio di truppe da parte degli Stati. Non è stato quindi ancora istituita una forza armata delle Nazioni Unite in grado di intervenire in modo automatico ed immediato quando si verificano situazioni di minaccia per la pace e la sicurezza internazionale. Tuttavia il Consiglio di sicurezza è finora intervenuto in crisi internazionali creando delle Forze di pace, incaricate di operare per il mantenimento della pace (peace-keeping operations).
Le Forze di pace delle Nazioni Unite non vengono utilizzate per fini coercitivi, ma bensì da deterrete rispetto ad eventuali attacchi a convogli da parte di bande armate, rendendo più sicura la distribuzione dei soccorsi. Con le forze di pace le Nazioni unite non dispongono di una forza organizzata e preparata per un intervento contro il governo al potere o contro gruppi armati, ma possono solo opporsi a singoli individui criminali.
In sostanza il Consiglio di sicurezza non è in grado di condurre direttamente delle operazioni di polizia internazionale secondo il modello disegnato dallo Statuto originario .
Il Consiglio inoltre può autorizzare l’uso della forza da parte degli Stati membri affidandogli il comando delle operazioni militari, purché le operazioni condotte collettivamente dagli Stati siano limitate alla protezione dei diritti dell’uomo, e quindi considerate legittime.