Il problema della gestione dei beni ecclesiastici (la c.d. manomorta ecclesiastica) rappresenta una delle più rilevanti res mixtae, dato che una parte consistente dei beni culturali in Italia è di provenienza o di proprietà ecclesiastica. L’aspetto fondamentale è stabilire a chi spetti la proprietà dei beni, e chi e in che misura debba occuparsene.

Ancora nel secolo scorso la Chiesa presentava un assetto di tipo feudale ed aveva una proprietà immobiliare molto rilevante. La perdita progressiva di tale proprietà iniziò con gli interventi bellici e proseguì con quelli legislativi. Si intaccava così la manomorta, ma non il beneficio ecclesiastico che resisterà fino al Codex iuris canonici del 1983.

Dopo la legislazione eversiva, i problemi più importanti riguardavano l’individuazione degli enti soppressi e di quelli conservati, dei beni che andavano assegnati al Fondo per il culto, devoluti o acquistati dallo Stato, concessi ad enti pubblici, o a privati, o convertiti.

Attualmente la materia è disciplinata dalla legge 222/1985 che ha istituito il Fondo edifici di culto, stabilendone le competenze.

In generale si può dire che accanto ad un patrimonio ecclesiastico in senso stretto, che assicura l’esistenza della Chiesa cattolica e da questa gestito, vi è quello che tutela i fini di culto e gli interessi religiosi dei cittadini credenti, che è di diretta spettanza dello Stato, anche se la Chiesa è impegnata a collaborare.

Secondo la definizione comune, il patrimonio ecclesiastico è “quel complesso di diritti su beni materiali che l’ordinamento statale riconosce all’autorità ecclesiastica per il raggiungimento dei suoi fini”.

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