Si suole ripetere che la libertà religiosa, giuridicamente intesa come la libertà garantita dallo Stato a ogni cittadino di scegliere e professare la propria credenza in fatto di religione, rappresenta storicamente la prima libertà dei moderni.
Tuttavia, nonostante questo primato storico, la libertà religiosa continua ad essere oggetto di dibattito teorico e di pratica rivendicazione, in quanto il discorso sulla libertà religiosa è caratterizzato da ambiguità di fondo, sia per ciò che attiene al concetto stesso di libertà, sia per ciò che attiene ai suoi contenuti concreti.
In particolare si può rilevare che nella nostra esperienza culturale, il problema della libertà religiosa mostra di subire un singolare processo di riformulazione teorica di concetti, portato a più matura elaborazione a cavallo tra Ottocento e Novecento.
Oggi la dottrina tende a considerare la libertà religiosa piuttosto come valore essenzialmente etico-politico, mettendone tra l’altro in evidenza l’intrinseca storicità e relatività.
Si parla della libertà religiosa nella sua accezione ricorrente non più quale principio univoco e universale, bensì quale principio ispiratore proprio di un insieme complesso e articolato di ordinamenti storicamente dati e definiti.
Non si deve dimenticare che le idee sovrastanti alla progressiva evoluzione dello Stato liberale ottocentesco allo Stato solidarista e sociale contemporaneo, influiscono in qualche modo anche nella concezione del diritto di libertà religiosa.
Difatti si afferma progressivamente la coscienza che questa non si esaurisce nei contenuti concreti storicamente determinati nell’età del liberalismo, e cioè nel diritto di manifestare apertamente la propria appartenenza confessionale (libertà di coscienza), di esercitare pubblicamente il culto (libertà di culto), di svolgere attività di proselitismo (libertà di propaganda), bensì anche nel diritto del singolo e delle formazioni sociali religiosamente qualificate di vivere nella realtà sociale conformemente alla visione della vita e dei valori che derivano dalla religione professata. Permane dunque una visione esclusivamente intimistica del fatto religioso.
A voler ricercare le cause che sono a monte della tendenza ad una più ampia concezione di libertà religiosa, bisognerebbe forse risalire al momento in cui si iniziò a ricomprendere anche l’ateismo nell’area garantita dal diritto di libertà religiosa, visto che le difficoltà ad estendere all’ateo la titolarità del diritto di libertà religiosa si incentravano proprio sul fatto che i classici contenuti del diritto di libertà religiosa si erano venuti storicamente determinando in relazione all’esigenza di tutelare il fenomeno religioso inteso in senso positivo. Di qui la necessità di una interpretazione estensiva di quei diritti atti a comprendere anche l’ateismo che è invece negazione del fenomeno religioso.
Tornando invece al fenomeno della generale tendenza verso una più ampia concezione del diritto di libertà religiosa si deve notare che esso nasce dalle pressioni della realtà sociale.
Una realtà sociale che da un lato preme per la affermazione di una libertà in materia religiosa che non subisca limitazioni, ma che possa trovare esplicitazione nella sua integralità.
Ma una realtà sociale che da un lato tende a ricomprendere nel nomen juris della libertà religiosa una serie di situazioni soggettive un tempo del tutto sconosciute, che possono prescindere da una appartenenza confessionale dell’individuo ma che sono accomunate tutte dalla medesima istanza alla rivendicazione del primato della coscienza individuale nei confronti della legge dello Stato.
Il carattere dirompente delle consolidate concezioni in materia di libertà religiosa è dato dal fatto che nelle nuove fattispecie poste dall’obiezione di coscienza entra in primo luogo e in rilievo l’individuo in se stesso e non la credenza religiosa.
Nell’esperienza giuridica è dato rilevare come l’interpretazione delle disposizioni costituzionali in materia di libertà religiosa abbia conosciuto una evoluzione in vari aspetti.
In particolare si deve notare che a proposito dell’ art. 19, che insieme all’ art. 8.1 va ad integrare le garanzie costituzionali in materia, come sin dalla sua formulazione rifletta una cultura giuridica storicamente datata.
Nell’articolo in esame infatti, la libertà religiosa risulta non solo quale diritto soggettivo, da valersi quindi nei confronti dei privati, ma pure come diritto pubblico soggettivo, che di conseguenza può essere azionato nei confronti dei pubblici poteri.
Titolari del diritto in questione sono tutti gli uomini, non solo i cittadini, ma anche le formazioni sociali che abbiano una qualificazione religiosa. Perciò si dice che si tratti di un diritto sia individuale, sia sociale collettivo.
Quanto ai suoi contenuti,la Costituzionericonosce la facoltà di professare la fede religiosa in forma in forma individuale o associata (libertà di coscienza); la facoltà di esercitare in privato o in pubblico il culto (libertà di culto); la facoltà di fare opera di proselitismo (libertà di propaganda religiosa).
Per ciò che invece attiene ai limiti di tale diritto, essi sono esplicitamente dati dalla Costituzione nel solo divieto dei riti contrari al buon costume. Si tratta di una espressione che è stata intesa dalla dottrina in maniera più ristretta, come l’esclusione della legittimità dei riti che offendono la libertà sessuale, il pudore e l’onore sessuale, o in maniera più ampia come l’esclusione della legittimità dei riti contrari al sentimento etico.
Altri limiti al diritto di libertà religiosa possono individuarsi nel diritto alla vita (art. 2) rispetto a pratiche religiose che dovessero prevedere sacrifici umani; nel diritto alla libertà personale (art. 13) rispetto a movimenti religiosi che riducessero in schiavitù gli adepti o nel divieto di riunioni armate o di associazioni segrete (art. 17 e 18).
Particolarmente degna di nota è stata la giurisprudenza costituzionale che ha apportato un complessivo ammodernamento in materia.
Per quanto riguarda innanzitutto il problema dei titolari del diritto di libertà religiosala Cortenon ha esitato a ricondurre nell’ambito delle garanzie di cui all’art 19 anche la posizione soggettiva dell’ateo.
Difatti in tale decisionela Corteosservava che l’opinione prevalente fa ormai rientrare la tutela della cosiddetta libertà di coscienza dei non credenti in quella della più ampia libertà religiosa assicurata dall’art 19.La Corteosservava quindi, che la libertà di coscienza presuppone non solo che l’ordinamento statuale non imponga ad alcuno atti di culto ma anche che non sia imposto il compimento di atti con significato religioso, concludendo con il caso specifico che con la formula di giuramento, avente un chiaro carattere religioso, il testimone non credente subiva una lesione della sua libertà di coscienza.
Quanto ai contenuti del diritto di libertà religiosa, anche qui la giurisprudenza della Corte costituzionale è venuta ad ampliare il disposto dell’art. 19, che esplicitamente menzione solo tre classiche facoltà: libertà di coscienza, di culto e di propaganda.
In una nota sentenza sull’ art. 38 del Conc. Lat. (per il quale la nomina dei prof. della Univ. Cattolica doveva essere preceduta dal nulla osta dell’ autorità ecclesiastica),la Cortevenne ad affermare il principio secondo cui dalla libertà religiosa deriva anche la libertà di istituire scuole e università di ogni ordine e grado ed istituti di educazione aventi carattere confessionale.
Anche nella disciplina dell’assistenza sociale e della beneficenza,la Corteha affermato che alla libertà religiosa promana anche la facoltà di istituire enti con finalità assistenziali che abbiano una connotazione religiosa.
Perla Corteinoltre, sussiste un limite alla libertà religiosa, ulteriore rispetto a quello dei riti contrari al buon costume, e cioè il limite delle manifestazioni di pensiero in materia religiosa di carattere vilipendioso. Il primo limite attiene alla libertà di culto, il secondo alla libertà di propaganda religiosa.
La Corteha anche annoverato il rifiuto di compiere il servizio militare armato nel diritto alla libertà di coscienza che costituisce una concreta emanazione del diritto di libertà religiosa (legge n. 772 sostituita con la n.230).
Il codice penale in vigore contemplava una serie di ipotesi delittuose contro la religione cattolica e gli altri culti, in particolare nell’art. 402 si puniva il vilipendio della religione cattolica, in quanto religione dello Stato; nell’art. 403 le offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di chi la professo; nell’art. 404 e 405 riguardavano sempre la religione catt. mentre nell’art. 406 veniva punito chi commetteva i fatti previsti dagli art. 403-405 contro un culto ammesso nello Stato, peraltro con una pena minore rispetto a quella prevista nel caso di fatto commesso contro la religione di Stato.
Si deve poi ricordare che l’art. 724 nella sua originaria formulazione puniva chiunque pubblicamente bestemmia controla Divinitào i Simboli venerati nella religione dello Stato. Non era dunque prevista sanzione per chi bestemmiasse contro altre religioni.
Nello spirito del tempo, la preoccupazione del legislatore statale era piuttosto quella di tutelare la religione comunemente professata dalla quasi generalità dei cittadini, che non quella di tutelare la libertà religiosa come diritto individuale e collettivo.
Dopo l’avvento della Costituzione repubblicana la dottrina e la giurisprudenza vennero a prospettare i profili di illegittimità costituzionale delle norme su richiamate e ciò per varie ragioni: per la strutturale incompatibilità di tutti i reati di vilipendio con l’ampio riconoscimento costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21); per l’inammissibilità di sanzioni penali a tutela della religione ufficiale, in uno Stato che ormai si autoqualificava come laico; per l’irragionevole disparità di trattamento tra la religione cattolica e le altre religioni.
La prima di tali ragioni presentava però una sostanziale carenza di fondamento. Perché vilipendere significa etimologicamente tenere a vile, cioè indica una manifestazione di pensiero deridente ed oltraggiosa, il che non può essere ammesso in un ordinamento democratico. Le altre 2 ragioni avevano invece, un più solido fondamento.
Solo di recentela Cortecostituzionale è intervenuta incidendo profondamente sulla normativa del 1930.
A seguito di tali interventi è venuta del tutto meno la fattispecie criminosa di cui all’ art. 402; mentre quanto alla fattispecie contemplata nell’ art. 404, è ora stabilita la punibilità del vilipendio della religione dello Stato mediante vilipendio di cose sulla base di una sanzione non più maggiore, ma pari a quella prevista per i cosiddetti culti ammessi, rimangono invece in vigore gli art. 403, 405 e 406 per i quali sostanzialmente vengono perseguite le offese alla religione mediante vilipendio delle persone ed il turbamento di funzioni religiose, con pena maggiore o minore a seconda che si tratti della religione cattolica o di altra religione.
Quanto poi al reato di bestemmia, in seguito al decreto sulla depenalizzazione dei reati minori, la bestemmia è stata trasformata in illecito amministrativo sanzionabile dal prefetto.
Il problema che ora si pone è se sia bene lasciar cadere ogni tutela penale della religione, o se invece questa debba rimanere, ma in una differente formulazione.
La prima posizione è sostenuta da chi ritiene che la religione in quanto tale non ha bisogno di tutele penali, in quanto secondo alcune Intese stipulate con confessioni religiose diverse dalla cattolica, la tutela in materia religiosa deve essere attuata solamente attraverso la protezione dell’esercizio dei diritti di libertà riconosciuti e garantiti dalla Costituzione.
L’altra posizione è sostenuta da chi ritiene che in materia religiosa debba rimanere una tutela penale specifica, visto che nella storia, tra tutti i diritti di libertà quello in materia religiosa è stato maggiormente oggetto di attentati e di limitazioni non solo da parte delle pubbliche autorità, ma anche da parte dei privati. Questa posizione appare più convincente.