In rapporto al principio di eguaglianza il fattore religioso entra in rilievo, nel testo costituzionale, a tre differenti livelli.

Il primo è quello che attiene all’eguaglianza giuridica o eguaglianza in senso formale, posta al primo comma dell’ art. 3.

Il principio dell’ eguaglianza giuridica, nato dalla concezione liberale in reazione alla diversa pressione esercitata dall’ ordinamento giuridico sui consociati, continua a svolgere la sua originaria funzione di garantire a tutti pari opportunità nell’esprimere le proprie capacità. In particolare nella formula di cui al primo comma dell’ art. 3, il principio è rafforzato con una serie di specificazioni poste come limiti assoluti delle pubbliche funzioni.

A differenza del diritto di libertà religiosa, il divieto di discriminazione per motivi religiosi risulta invece come un principio relativo. Innanzitutto nel senso che esso è riferito ai soli cittadini, con evidente esclusione degli stranieri e con discussa estensione della garanzia agli enti, siano o meno essi dotati di personalità giuridica.

In secondo luogo il principio in esame opera nel senso del divieto di trattare giuridicamente in maniera differenziata situazioni di fatto uguali.

Si deve inoltre notare che l’eguaglianza formale può subire deroghe o limitazioni ad opera della stessa Costituzione.

La formula dell’ art. 3 fissa anche, nel suo secondo comma, il principio della eguaglianza in senso sostanziale, che pone come compito della Repubblica quello di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, limitandone la libertà e l’uguaglianza.

Il principio, che comporta la qualificazione del nostro come Stato sociale, importa conseguentemente anche la predisposizione delle condizioni normative atte a garantire il soddisfacimento delle esigenze religiose di chi avverte la dimensione religiosa come essenziale e costitutiva della personalità.

Il pieno sviluppo della persona umana è un interesse che lo Stato deve perseguire attraverso la sua legislazione in ogni campo, quindi anche in quello religioso, ma in questo caso non direttamente, bensì tramite la collaborazione delle confessioni religiose e sempre nel pieno rispetto della libertà religiosa di ognuno.

Tale concezione non si contrappone al principio di laicità dello Stato, in quanto si è osservato che il concetto di laicità dello Stato non esclude che lo Stato-apparato possa tener conto della presenza di quei valori e dell’opportunità di soddisfare talune esigenze da essi derivanti.

Tipica applicazione di tale principio si ha nei servizi di assistenza spirituale nelle cd. Istituzioni totalizzanti (forze armate, ospedali..), cioè in quelle istituzioni nelle quali i cittadini si vengono a trovare per varie ragioni, in situazioni di soggezione speciale che limitano la loro libertà personale. In tali circostanze è reso impossibile l’autonomo soddisfacimento di bisogni religiosi.

Un secondo livello al quale entra in rilievo il principio di eguaglianza per rapporto al fattore religioso, è quello delle confessioni religiose.

Giova ricordare chela Costituzionenon dà la nozione di confessione religiosa, e che in dottrina si è a lungo dibattuto sugli elementi distintivi di essa rispetto alle altre formazioni sociali. Fra le tante definizioni datene, la più adeguata sembra quella che considera, sul piano giuridico, come confessioni religiose quelle comunità sociali stabili dotate o non di organizzazione e normazione propria e aventi una propria ed originale concezione del mondo, basata sull’esistenza di un Essere trascendente, in rapporto con gli uomini.

La disposizione costituzionale che entra qui in rilievo è quella contenuta nel primo comma dell’ art. 8, per il quale tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Una disposizione che riguarda tutte le confessioni religiose, ivi compresa la cattolica.

La norma in esame costituisce una clausola di garanzia perché il pluralismo di regimi giuridici che possono caratterizzare nell’ordinamento italiano la condizione delle varie confessioni religiose, non venga ad intaccare l’eguale libertà che tutti devono assicurare.

L’ultimo rilievo nel quale entra in rilievo il principio di eguaglianza per rapporto al fattore religioso, è quello delle associazioni ed istituzioni religiose.

Si tratta di entità distinte rispetto alle confessioni religiose, anche perché di regola contribuiscono a costituire la complessa struttura della confessione ed in essa sono inquadrate.

Al riguardo l’art. 20 dispone che il carattere ecclesiastico e il fine di religione di una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative.

Si tratta di una disposizione che si pone come ulteriore e rafforzata garanzia della libertà religiosa collettiva ma soprattutto, come esplicita estensione del principio di eguaglianza nei confronti di enti dotati do un alto grado di peculiarità.

La memoria storica rammentava al Costituente come proprio il carattere ecclesiastico ed il fine religioso avessero legittimato in passato un regime giuridico e fiscale di sfavore.

Inoltre la garanzia di cui all’ art. 20 riguarda sia gli enti forniti di personalità giuridica sia gli enti che ne sono sforniti.

Problema complesso è quello della individuazione degli enti garantiti dall’ art. 20. Per una parte della dottrina la formula “carattere ecclesiastico” si riferirebbe in maniera esclusiva agli enti della Chiesa cattolica, laddove gli enti espressi dalle confessioni religiose diverse dalla cattolica rientrerebbero tra quelli con “fine di religione o di culto”, visto che il predicato ecclesiastico denota soltanto autorità, persone, interessi della confessione cattolica.

Trattasi di distinzione discutibile, dal momento che nell’ art. 20 le espressioni “carattere ecclesiastico” e “fine di religione o di culto” non costituisco una endiadi, e neppure risultano come sinonimi usati per indicare l’ appartenenza confessionale delle istituzioni ed associazioni in questione.

In altre parole la disposizione costituzionale in esame distinguendo nettamente tra carattere ecclesiastico e fine di religione o di culto, mostra di ritenere non coincidenti l’elemento del carattere e l’elemento del fine, in relazione ad alcune categorie di enti.

A ben guardare l’ art. 20 tutela tutta l’ampia categoria di enti individuabili sia in relazione al loro collegamento formale con l’ordinamento confessionale di appartenenza, sia in relazione alle loro finalità.

Sembra doversi ritenere che, con riferimento al carattere ecclesiastico ed il fine di religione o di culto, il Costituente non abbia inteso far altro che dettare dei criteri per l’individuazione degli enti che non possono essere per ciò assoggettati a peculiari limitazioni legislative, senza alcun riferimento ad una determinata confessione religiosa.

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