La natura giuridica delle Comunità europee è stata molto discussa soprattutto nei primi anni della loro attività. Il diritto internazionale pubblico non offriva precedenti utilizzabili. Si è subito palesato un contrasto tra chi sosteneva una teoria federalistica ed i partigiani della teoria internazionalistica. Alla prima venne subito obiettato che uno Stato federale deve disporre della Kompetenz-Kompetenz, deve cioè poter decidere (cosa che per le Comunità europee non si verifica) sull’estensione delle proprie competenze.
In maniera analoga il professor Morelli (Nozioni di diritto internazionale7, Padova 1967, p. 266) osservava: «L’ordinamento dello Stato federale non solo è sovraordinato agli Stati membri, in quanto entità unitarie… ma è altresì superiore agli ordinamenti giuridici di cui gli Stati membri sono i portatori; questi ordinamenti non sono originari, ma sono derivati dall’ordinamento dello Stato federale. La delimitazione di competenza fra ordinamento dello Stato federale ed ordinamenti degli Stati membri, cioè la ripartizione delle funzioni statali fra Stato federale e Stati membri, è fatta ed è eventualmente modificata dall’ordinamento dello Stato federale con effetti immediati per gli ordinamenti degli Stati membri… Invece gli ordinamenti degli Stati membri della Comunità europea del carbone e dell’acciaio hanno conservato, anche dopo l’instaurazione della Comunità, il loro carattere di ordinamenti originari».
I sostenitori della teoria federalistica argomentano che le Comunità europee sono delle federazioni parziali, ma Morelli ha buon gioco a replicare che la formula dello Stato federale «parziale» contiene una contraddizione in termini. Né vale affermare che nelle Comunità europee «degli Stati indipendenti e sovrani vengono ad agire come se tra loro esistesse un vincolo federale» perché nel diritto internazionale vigente non si può determinare la natura giuridica di un ente alla luce della condotta politica dei suoi membri (occorrerebbe, per questo, un preciso accordo giuridico di questi ultimi, ma in tal caso si avrebbe probabilmente la figura dell’organo comune, piuttosto che quella dello Stato federale, al cui concetto è essenziale l’esistenza di una potestà originaria).
Le teorie internazionalistiche sostengono invece il concetto che la Comunità, creazione di trattati internazionali, rientra integralmente nel campo di applicazione del diritto internazionale.
Alcuni autori ravvisano dei precedenti della Comunità nelle convenzioni internazionali in materia di protezione della proprietà industriale, che producevano effetti giuridici all’interno degli Stati membri, e nelle convenzioni internazionali che imponevano di attribuire effetti automatici alle sentenze dei Tribunali arbitrali misti.
In realtà, nessuna unione di diritto internazionale ha mai presentato dei caratteri come la produzione autonoma di norme giuridiche, la prevalenza di esse sul diritto nazionale degli Stati e l’applicazione diretta all’interno di quest’ultimo, l’efficacia obbligatoria e l’esecutorietà immediata delle decisioni (anche se non tutte) della Corte di giustizia.
Nessuna convenzione internazionale istitutiva di tribunali arbitrali, poi, è andata oltre l’obbligo per i contraenti di recepire in modo uniforme statuizioni concernenti materie ben precisate.
Lo stesso si può dire per le cosiddette «competenze quasi-legislative» che talune o.i. esercitano in materie tecniche. Il caso più noto è quello dell’Organizzazione per l’aviazione civile internazionale (ICAO), in cui il Consiglio a maggioranza di due terzi può adottare o modificare gli standards internazionali relativi all’aviazione civile che dopo tre mesi divengono obbligatori per tutti i membri. Questo potere non è incondizionato, in quanto prima dello scadere dei tre mesi la maggioranza dei membri dell’ICAO può notificare al Consiglio la propria disapprovazione: l’Allegato in questo caso non entra in vigore per nessuno Stato. L’entrata in vigore è impedita, ma questa volta per il singolo membro, quando questo segnali al Consiglio la propria impossibilità di seguirne le prescrizioni (metodo detto del contracting out «individuale»).
Vi è comunque da rilevare che si tratta pur sempre (anche quando l’Allegato riguardi una materia tipicamente interna come le abilitazioni del personale di volo o i libri di bordo) di obblighi internazionali: il trattato istitutivo non impone in modo specifico di renderli efficaci automaticamente all’interno degli Stati membri. Per questo occorrerà un atto particolare adottato secondo i principi di ciascun ordinamento (o la disponibilità dell’ordinamento a recepire le norme degli Allegati anche senza uno specifico atto di legislazione).
Per contro gli Stati membri sono sempre rimasti e sono tuttora pienamente sovrani.
Le incertezze che emergono dal panorama sopra delineato provano la difficoltà di ricondurre un fenomeno come le Comunità europee negli schemi del diritto internazionale tradizionale.
In ciò vi è una sensibile differenza rispetto alla formazione di un nuovo Stato, che significa essa pure instaurazione di un ordinamento giuridico nuovo ed indipendente dagli altri, ma nel quadro di un procedimento disciplinato mediante una fattispecie tipica del diritto internazionale (al di là del diverso modo in cui la formazione può aver luogo: distacco rivoluzionario, distacco pacifico, smembramento, fusione, creazione su di un territorio nullius).
Poiché la disciplina mediante fattispecie tipiche ha carattere eccezionale nel diritto internazionale – lo dimostra chiaramente il caso delle organizzazioni internazionali, non previste da una norma generale attributiva di personalità o altrimenti regolatrice della loro posizione – spesso lo schema giuridico di una data realtà deve essere appositamente costruito. Questo è il punto dal quale occorre muovere per definire il carattere giuridico delle Comunità europee.
La storia della CE in questi anni – si prende in considerazione la Comunità più importante – mostra che il suo ordinamento giuridico ha subito delle modificazioni rilevanti per effetto della volontà degli Stati. Il «compromesso» di Lussemburgo dopo la crisi del 1965-66 ha segnato la fine delle posizioni federalistiche, mentre la creazione del Consiglio europeo e l’avviamento del processo di consultazione politica ha allargato la cooperazione oltre i limiti iniziali. La stessa vicenda del Parlamento europeo dimostra che il cemento della Comunità è sempre stata la volontà degli Stati di cooperare. L’Atto unico europeo, infine, ha creato nuove competenze ed un diverso modo di esercitare quelle precedenti. Dalla Comunità europea, infine, è nata l’Unione europea (che verrà trattata in seguito).
Il contributo che l’esperienza delle Comunità ha dato alla pratica del diritto internazionale di questi anni sta proprio nell’aver mostrato che, anche al livello in cui si situano fenomeni che interessano questo ordinamento giuridico, ciò che conta non è il principio normativo – che ricerca la concatenazione delle norme nella logica del dover essere e della derivazione – ma quello esistenziale della volontà. Ciò vale ancor di più con la creazione dell’Unione europea, con la quale – fatto pressoché unico nella storia delle relazioni internazionali – è stato assunto l’impegno di costituire una unione senza determinarne con esattezza il contenuto.
Nella ricerca di una idonea categorizzazione delle Comunità europee emerge la validità dell’affermazione di Carl Schmitt che il concetto di ordinamento giuridico contiene due elementi completamente distinti: quello normativo del diritto e quello esistenziale dell’ordinamento concreto.
L’elemento normativo è il complesso dei rapporti con i sistemi giuridici degli Stati membri e con l’ordinamento internazionale – dunque un complesso di proposizioni normative e di effetti giuridici che trovano collocazione anche in ordinamenti distinti da quello comunitario – mentre quello esistenziale è dato dalla «presenza» delle Comunità come struttura politica di cooperazione nel campo dell’economia.
Nel solco della dottrina positivistica e dell’elaborazione che essa ha avuto tra i cultori del diritto internazionale, è stato affermato che lo Stato, come pure gli altri soggetti del diritto internazionale sono delle «potenze»: che acquistano la soggettività quando assumono la consistenza materiale delle potenze e la conservano nonostante le trasformazioni che possono sopravvenire finché la conservano.
Tale affermazione è inesatta se si pensa che la qualificazione di potenza, al giorno d’oggi, si adatta sul piano militare solo agli Stati che dispongono delle armi decisive e che d’altra parte, sul piano dell’economia, la potenza è disseminata in una serie di soggetti i quali, almeno dal punto di vista formale, sono sottoposti esclusivamente all’ordinamento interno degli Stati. Né basta, per correggere quanto vi è di eccessivo in quell’affermazione, sostenere che qualsiasi ente dotato d’un certo grado d’indipendenza ed effettivamente operante sul piano delle relazioni internazionali è un possibile titolare di poteri, diritti ed altre situazioni soggettive internazionali derivanti da norme consuetudinarie.
Bisogna invece partire dal concetto che la potestà suprema (letzte Entscheidung), l’elemento cui Schmitt fa ricorso per definire la sovranità, può essere caratteristica anche di una struttura extrastatuale relativamente al campo in cui si svolge l’azione politica, e che l’oggetto di essa non è più necessariamente il «monopolio dell’amico e del nemico» (con la facoltà di dichiarare la guerra). Nelle Comunità essa appare come la volontà, continua e sempre viva, di far vivere una struttura di cooperazione interstatale avente per campo di attività l’economia e la produzione.
Se non si può negare agli Stati il diritto di recesso, facendo leva sul fatto che i Trattati non lo prevedono (il diritto di recesso non è contemplato neppure dalla Carta dell’ONU, ma soltanto allo scopo di affermare il principio della cooperazione ad ogni costo entro l’organizzazione), tale diritto viene in considerazione soprattutto come elemento suscettibile di rompere la cooperazione globale e con essa la costituzione materiale della Comunità.
Tale evento può verificarsi con il recesso di più Stati membri o anche di uno solo di essi particolarmente significativo: si dirà che in questo caso si è verificato un fatto interruttivo della cooperazione e quindi dell’identità della Comunità. Gli obblighi comunitari, restando in vigore tra gli Stati “rimanenti”, costituiranno qualcosa di diverso dalla Comunità vera e propria.