Nell’Italia postunitaria la seconda metà dell’Ottocento fu un periodo di inquieta incubazione per il movimento operaio, che cominciò ad organizzarsi collettivamente (es. società operaie, camere del lavoro, sindacati di mestiere). L’esistenza delle varie coalizioni o associazioni era tollerata, almeno in linea di massima, e i fatti di sciopero, in seguito all’emanazione del Codice Zanardelli (1889), cominciarono ad essere accettati. In Italia, tuttavia, l’azione sindacale ebbe connotazioni anche politiche, e questo perché il movimento operaio era agitato da correnti riformiste, marxiste e anarchico-libertari. La prevalenza della dimensione politica su quella sindacale è sottolineata anche dal fatto che il primo grande sindacato italiano, la Confederazione Italiana del Lavoro (CGIL), fu costituito nel 1906 attraverso la fusione delle organizzazioni sindacali che si erano formate per impulso del Partito socialista italiano. A fianco del sindacalismo di impronta socialista, comunque, si costituì anche un sindacato <<bianco>>, di ispirazione cristiano-cattolica.

In Italia, quindi, data la diffusa politicizzazione del movimento sindacale, il diritto del lavoro cominciò a prendere piede anche sul terreno legislativo (es. Codice Zanardelli), tuttavia, nella misura in cui questione sociale e politica si sovrapponevano, i destini della lotta sindacale venivano in qualche modo a dipendere dalle vicende della contesa ideologica e politica, nell’ambito delle quali si fronteggiavano visioni profondamente diverse. È a tale diversità di visioni che occorre rivolgere l’attenzione, perché il processo di sviluppo del diritto del lavoro è dipeso proprio dalla prevalenza di una di esse, quella socialdemocratica e riformista.

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