Negli anni ’90 sono sopraggiunti nuovi processi di trasformazione economica che hanno modificato ulteriormente lo scenario mondiale. Si è cominciato a parlare di globalizzazione, un’espressione talora abusata, ma nella sua essenza adeguata a rappresentare il complesso delle novità emerse nel decennio in considerazione. Nel contenitore della globalizzazione hanno trovato accoglimento fenomeni tra loro molto diversi:

  • incremento dei rapporti di scambio commerciale fra le aree economiche.
  • accesso ai mercati mondiali di nuovi paesi (es. Cina).
  • crisi probabilmente irreversibile, nei paesi più sviluppati, di interi settori industriali.
  • tentativo di arginare la crisi attraverso il fenomeno della <<delocalizzazione>>.
  • diffusione mondiale delle nuove tecnologie informatiche e telematiche.

Al contempo si è attivata una profonda trasformazione dei modelli produttivi e organizzativi d’impresa: in sostituzione dell’impresa taylorista-fordista, ha cominciato a diffondersi l’impresa post-fordista, perennemente alla ricerca di innovazioni, incentrata su manodopera mediamente più qualificata e orientata a fornire risposte rapide e flessibili ai mutamenti delle richieste del mercato.

L’industria, comunque, non si è limitata a trasformarsi, bensì ha anche perduto peso all’interno della struttura produttiva e occupazionale, essendo continuata la tendenza verso la crescita del settore servizi.

 Relativamente all’Italia, occorre tener conto dei mutamenti provocati dal processo di unificazione commerciale e monetaria europea, che ha tolto al paese la possibilità di continuare a ricorrere alle tattiche dilatorie con le quali, in passato, aveva spesso rimandato il confronto con i problemi dell’economia reale. Con l’adesione all’unione monetaria e all’Euro (2002), inoltre, è divenuto impossibile compensare con svalutazioni della moneta nazionale le perdite di competitività dei prodotti italiani. Si è così posto, in termini piuttosto drammatici, il problema della competitività del sistema produttivo.

Non è un caso che in quegli anni si è diffuso uno schema interpretativo incentrato sulla contrapposizione fra due modelli economici:

  • il modello economico-sociale anglosassone, meno protettivo.
  • il modello europeo-continentale (<<renano>>), teso a coniugare l’esigenza della crescita economica con quella della protezione e della coesione sociale.

Dato che l’area anglosassone ha fatto registrare migliori performance economiche, si è tratta la conseguenza che l’eccesso di regolazione, di carico fiscale e di garanzie che caratterizzerebbe le economie continentali rappresenterebbe la vera <<palla al piede>> delle medesime. In particolare, il <<male>> di questa regolazione eccessiva è stato identificato nel diritto del lavoro, accusato, ad esempio, di disincentivare le imprese ad assumere lavoratori, di creare un sovraccarico di costi e di ostacolare i cambiamenti necessari del ritmo della competizione globale.

 La <<riforma strutturale>> da adottare è stata ravvisata nella necessità di incrementare il tasso di flessibilità consentito alle imprese, modificando, almeno in parte, la disciplina lavoristica, ovvero eliminando o attenuando alcune garanzie normative, oppure restituendo spazi derogatori all’autonomia individuale. È tuttavia evidente che, portando all’estrema conseguenza l’istanza di flessibilità, il diritto del lavoro rischierebbe di essere gradualmente riassorbito dal diritto dei contratti, tornandosi a trattare il lavoratore subordinato come un normale contraente.

In generale, comunque, sono due le critiche che sono state mosse al diritto del lavoro, accusato di essere uno dei fattori alla base della crisi economica:

  1. una critica economica, che accusava il diritto del lavoro di essere un fattore causativo di disoccupazione. Tale critica, spingendosi oltre, ha letto un certo diritto del lavoro come espressione di una protezione <<corporativa>> degli insider nei confronti degli outsider.
  2. una critica socio-culturale, che accusava l’assetto ultra-protettivo del diritto del lavoro di non avere più giustificazione in una società dove era riemersa l’importanza del valore libertà e dove il lavoratore non aveva più bisogno di una protezione come nell’Ottocento.

Naturalmente, tanto la critica economica quanto quella socio-culturale sono state contraddette da altri settori dell’opinione:

  1. sul piano economico, si osservava che non vi era prova che la rigidità dell’apparato protettivo fosse disfunzionale, e in particolare che aggravasse i problemi occupazionali.
  2. sul piano socio-culturale, si obiettava che le condizioni di debolezza del lavoratore nel mercato del lavoro erano ancora attuali.

In generale, comunque, l’insieme di questi fenomeni consentiva di parlare di una vera e propria crisi del diritto del lavoro, nel senso di messa in discussione delle sue basi fondative. Occorreva quindi iniziare a riflettere su come adeguare gli assetti del diritto del lavoro ai tempi che stavano mutando.

 Per tutti gli anni ’90, il paese è stato impegnato prima nello sforzo di salvarsi dalla bancarotta, e poi nella battaglia per <<entrare in Europa>>. Ciò ha richiesto una disciplina di controllo delle dinamiche dei redditi, ivi compresi quelli da lavoro, che è stata resa possibile da un patto di collaborazione tra governi (es. governi Amato e Ciampi del 1992-1993).

Contemporaneamente, comunque, è continuato quel processo di flessibilizzazione della normativa la cui buona riuscita è probabilmente all’origine del constante declino del tasso di disoccupazione:

  • la l. n. 223 del 1991, sui licenziamenti collettivi e sulla mobilità.
  • l’abolizione della scala mobile del 1992.
  • la l. n. 196 del 1997 (<<legge Treu>>), che ha legalizzato il lavoro interinale, reso possibile una modulazione flessibile degli orari di lavoro, rilanciato l’apprendistato e avviato l’esperienza degli stage.
  • il superamento del decrepito collocamento pubblico.

 A questi stessi anni, tuttavia, risalgono anche leggi più in continuità con la linea statutario-garantista:

  • la l. n. 125 del 1991, sulle azioni positive in favore delle donne lavoratrici.
  • il d.lgs. n. 61 del 2000, sul contratto di lavoro a tempo parziale.
  • la l. n. 53 del 2000, sui congedi parentali, familiari e formativi.
  • il d.lgs. n. 626 del 1994, che ha modernizzato la normativa in tema di tutela della salute e della sicurezza sull’ambiente di lavoro.
  • (fondamentale) la normativa che ha riformato la disciplina giuridica del lavoro pubblico, applicando al medesimo il regime legislativo e contrattuale privatistico. Nella sistemazione di tale normativa, realizzata nella speranza di rendere più efficiente la macchina amministrativa pubblica, ha avuto un grande ruolo Massimo D’Antona.
  • la <<Riforma Dini>> del sistema pensionistico, realizzata con la l. n. 335 del 1995, che ha posto le basi per il ritorno al meccanismo <<contributivo>> di calcolo delle pensioni di anzianità e di vecchiaia, in sostituzione di quello <<retributivo>> introdotto del 1969.

L’azione di governo di questo periodo, quindi è stata alquanto complessa anche in considerazione della divisione, che ha cominciato a profilarsi con nettezza, tra le due <<anime>>, riformista e radicale, della sinistra politico e sindacale-sociale.

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